di Margherita Fabbri
La città delle cose reali un tempo era stata la città delle cose effimere, ossia la casa di innumerevoli orpelli immateriali. Aveva ospitato milioni di riunioni virtuali, era stata la sede di tutti i social network del pianeta, ed aveva offerto la cittadinanza onoraria a tutti gli influencer più seguiti del mondo. Al posto delle frecce c’erano pollici alzati e i caffè erano stati sostituiti da locali con tavolini monoposto, tutti dotati di selfie stick. I suoi abitanti erano bellissimi e perfetti e ciascuno pubblicava almeno 15 stories al giorno, ricevendo almeno 1000 like quotidiani.
Poi d’un tratto qualcosa cambiò, l’effimero divenne così effimero da portarsi via tutto e le persone da un giorno all’altro rimasero senza più niente, come immerse in un grande vuoto nebuloso e di silenzio, per mesi e stagioni lunghissime. Finché in un giorno di forte vento, dal vuoto filtrò un angolo dell’antico azzurro e qualcuno si ricordò del cielo, e gridò commosso “Ehi, guardate!”. E piano piano la nebbia svanì, lasciando spazio a persone, animali, colori di ogni tipo, odori e sapori che tutti avevano il piacere di rincontrare, dopo tutto quel tempo di niente. E così la città delle cose effimere divenne la città delle cose reali.
Nella città delle cose reali si poteva toccare tutto. Non esisteva niente di ingannevole, ed anche le cose normalmente immateriali, come i sentimenti, o l’aria, era come se si potessero accarezzare.
I fiumi erano belli tutto l’anno: non solo al tramonto, quando si tingevano di rosso ed erano romantici, ma anche quando erano marroni dopo un acquazzone e sembrava che con la loro forza potessero spazzare via tutte le cose effimere del mondo.
Anche quando erano torbidi, i fiumi della Città delle cose reali erano meravigliosi, perché ospitavano uccelli di tutti i colori e pesci di ogni dimensione, che dopo l’arsura scoraggiante dell’estate, si sentivano finalmente riavere e non gli importava se le acque non erano poi così limpide.
E c’erano delle porte di legno marcio e ferro arrugginito, che avevano nutrito eserciti di termiti e sembrava volessero tenerti alla larga, ma chi osava avvicinarsi per spiare tra le fessure, poteva scorgere dietro a queste porte, mondi incantati.
Nella città delle cose reali non si dovevano aggiungere effetti scintillanti alle foto, perché tutto andava già bene così com’era, anche quando questo tutto era inappropriato o imperfetto o fuori dall’ordinario. Osservando un disegno, qualcuno ci vedeva degli occhi, qualcun altro un uovo di aquila che stava per schiudersi, ma non era un grosso problema, non ne scaturiva un dibattito astioso, diciamo.
Non ci si sommergeva di impegni per paura della noia, ma la si accoglieva a braccia aperte quando veniva a bussare alla propria porta, perché era una noia che aveva ogni volta una forma ed un colore diversi ed anche un certo sapore che non era da disdegnare.
E, si badi bene, non è che tutto fosse meraviglioso, nella città delle cose reali: si soffriva e si piangeva come in ogni altro angolo del globo. Lacrime e dolore accompagnavano la vita (e la morte) degli abitanti, come dappertutto, con la differenza che – se si era tristi – si poteva uscire di casa senza indossare la maschera della felicità; e se ci si sentiva soli, non era necessario mandare in giro foto con sconosciuti per mostrare che si aveva pur sempre una dignitosa vita sociale. Perché le cose effimere non importavano a nessuno.
Capitava che le persone litigassero o che gli amici si allontanassero per qualche tempo, e questo lasciava in giro molta malinconia. Ma una volta sbollita la rabbia, si bussava alla porta dell’amico e lo si trovava lì, sulla soglia, anche lui pronto ad uscire per venire proprio da noi, così che si finiva per ritrovarsi ancora una volta assieme, a bere una birra al bar dell’angolo. Perché non si potevano lasciare cadere le amicizie nel vuoto, nella città delle cose reali.
L’unica cosa di effimero che era rimasta nel DNA della città delle cose reali, era che non si sapeva bene dove si trovasse. Era come se fluttuasse sopra il mondo e qualcuno a volte, fuori dai suoi confini, ne percepiva l’esistenza, ma senza riuscire mai a localizzarla. Non si trovava su Google Maps e chi provava a cercarvi le indicazioni per raggiungerla, si imbatteva in vari suggerimenti fuorvianti: c’erano la città delle castagne, la città delle campane, la città delle cento torri, ma della città delle cose reali non c’era traccia.
Finché un giorno, qualcuno a voce alta domandò, spazientito: “Ma dove sarà mai, la città delle cose reali?”.
Ed una voce subito rispose: “Ehi, non serve strillare! Sono qui! E sono dappertutto, mi pare evidente”.
“Dappertutto?! Evidente?!?”
“Beh, sì. Non amo andare in qua e in là. E tendo ad impolverarmi. Ma togliendo un po’ di effimero, potrete lasciare spazio alle cose reali e mi troverete. E voi abiterete in una nuova città”
“E cosa aspettavi a dircelo?”, domandò qualcun altro, che si era avvicinato incuriosito.
“Beh, non me lo avevate mai chiesto…”
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