Educatori senza Frontiere è un luogo, uno spazio aperto, un’ esperienza da vivere insieme.
Solitamente organizziamo un fine settimana formativo a Maggio che riunisce educatori ed educatrici da tutta Italia.
Quest’anno non abbiamo preso treni, non abbiamo guidato auto, non abbiamo preso biciclette per arrivare al Parco Lambro qui a Milano, ma non potevamo rinunciare ad incontrarci, è per questo che oggi siamo qui per raccontarvi, un passetto all volta, quello che è successo alla formazione di Maggio, con le parole delle formatrici e dei protagonisti, 100 protagonisti.
Oggi leggiamo l’intervento di Cristina Mazza, responsabile di Educatori senza Frontiere.
La riflessione apre al concetto di movimento, formazione e cambiamento.
Scritto da Cristina Mazza
Quando abbiamo pensato la formazione ormai un anno fa, mai il nostro pensiero ha contemplato una simile situazione. Risultano cosi profetici questi titoli, quasi da far tremare le gambe. Ci sono eventi che mai pensiamo che possano accadere alla vita, a noi. Guardiamo i PVS e siamo abituati alle immagini di povertà, fame, epidemie, cavallette, guerre. Non ci siamo mai posti il problema che sarebbe potuto capire.
E mai ancora, che qualcuno, per il nostro bene, ci chiudesse in casa, ci togliesse la libertà, misurasse i nostri passi, controllasse il nostro respiro, mai che qualcuno doveva ricordarci di lavarci le mani, di mantenere un’igiene rigorosa. Chiusi! Controllati nei movimenti pena multe salatissime. Chi lo avrebbe mai detto. E poi la paura, il terrore. Il calcolo dei morti ogni giorno…. Morti, contagiati, ammalati…. E per non parlare dei nostri nonni, di una generazione che ha lasciato questo mondo senza parole, portandosi via la storia di questo nostro tempo, la saggezza e la ricchezza della memoria. Tutto questo abbiamo vissuto chiusi tra le quattro mura di casa, molti di noi. E chi si è trovato da solo, e chi in troppi a condividere i muri, le porte, le maniglie da non poter aprire, i ritmi necessari della colazione, del pranzo e della cena per non lasciarsi andare al nulla, al vuoto e al niente. Lavorare necessariamente per non mollare quasi 10 ore davanti ad un pc, quasi disperatamente per non perdere i contatti con il mondo, per farci sentire vivi, per farci sentire, quasi a dire… vi prego non vi dimenticate. Noi siamo qui. E lo sforzo di sentire gli amici, mandando giù gropponi di malinconia facendo finta che tutto andava bene.
Un giorno dopo l’altro, un’ora dopo l’altra.
Ci siamo trovati a fare domande e a dare risposte. Per non soccombere ci siamo trovati a dare un significato a ciò che facevamo, ma ora lo sappiamo. Prima non lo sapevamo. Ora ne siamo consapevoli. Prima no.
Prima siamo passati dalla paura alla rabbia alla rassegnazione alla progettazione alla speranza.
E dentro questi sentimenti ci siamo mossi prima con furore per non arrendersi, poi rallentando il passo consapevoli che non ci sarebbe stato molto da fare.
Un po’ come il lavoro che ha proposto Giorgia. Quei movimenti che all’inizio sembrano convulsi memori di ritmi già archiviati e divenuti parte di noi, sono poi diventati lenti, non più ricchi di quella fregola che ha li sempre abitati.
Come ci si può muovere nell’immobilità.
Penso a Enzo Bosso, ad un corpo martoriato ma un’anima vivace. Nell’immobilità capace di creare arte e sogni, capace di sublimare quel corpo in quell’anima gentile e magnifica che ha fatto di lui e di chi lo ha incontrato un capolavoro. Ma come lui tanti altri.
Penso a Nelson Mandela, alla carcerazione per ideali nobili. Passato attraverso il dolore, senza mancare di far sognare e di vincere la battaglia.
Penso che quando il nostro corpo si ferma per qualche motivo, possiamo decidere di soccombere o possiamo decidere di sognare.
Questo tempo ci ha insegnato che si può fare. Che possiamo camminare nella nostra immobilità dando significato al nostro passo che si alimenta del nostro cuore.
Le mille domande che ci siamo fatti sono state movimento e le altrettante risposte che non sono arrivate sono movimento. Quell’andare e tornare dentro e fuori di noi che ci ha permesso di aprire spazi di conoscenza che magari non sapevamo di avere.
La necessità di nutrimento per non arrendersi all’evidenza schiacciante dell’immobilità. Prendersi cura nel corpo e nello spirito.
Tutto questo è stato necessario per non cedere.
Quanto questa sperimentazione di noi ci aiuterà ad immaginarci una vita diversa?
Quanto le tecniche affinate dell’ascolto, della pazienza, della scoperta, delle lacrime gonfie e salate che arrivano dal profondo, dello scrivere di me per non perdere i pezzi, per progettare e programmare per dare ragione della nostra storia, sapranno regalarci un modo diverso di porci nel mondo?
Speravamo che l’uomo diventasse migliore dopo tutto questo. Io non so se è accaduto o no.
Ognuno di noi sa da sé se è stato un tempo proficuo.
Educatori di noi, educatori degli altri.
Questi significati ricordiamoceli sempre, quando ci ritroveremo di nuovo a camminare a fianco di chi ha bisogno di noi e del nostro essere.
Ricordiamo il significato dei passi che ci hanno portato fino a qui.
Quest’anno non partiremo.
Esf ha deciso, se non per alcuni progetti qui in Italia, di non andare dall’altra parte del mondo. Sappiamo cosa succede qui, non sappiamo cosa succederà nei prossimi mesi dall’altra parte del mondo.
Abbiamo deciso di non disperarci e di non lasciare spazio al tempo vuoto.
Questo nuovo modo di fare formazione ci ha insegnato che si può essere vicini anche nella distanza. Che possiamo farcela anche se non è proprio nelle nostre corde.
Abbiamo contattato i responsabili dei progetti per creare dei percorsi comuni a distanza, di formazione e di scambio. Ci stiamo pensando. Non sappiamo ancora cosa riusciremo a fare. Al cammino arriveremo certamente con più informazioni.
Ma abbiamo imparato una cosa: che niente va perduto e che si può dare significato alle esperienze della vita che accadono senza che noi nemmeno ce ne accorgiamo.
“Un passo dietro l’altro dandosi tempo, andare per tentativi. Ospitare l’intimità della propria reciprocità, coltivare un tempo di incubazione e di pregustazione degli incontri che si faranno. E’ scegliere l’incanto invece che il disincanto, la scoperta invece della conferma. Accontentarsi di esperienze marginali mai totalizzanti….
Stare affacciati alla soglia in silenzio, alla soglia di chi non ha voce. non perché non conti, ma perché esercita il pensiero lento o l’impopolare arte del non sapere cosa dire. Perché come Socrate sa di non sapere perché non è sempre necessario avere la risposta pronta e non sempre la risposta pronta è la nostra verità.
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