di Benedetta Campia
Rispetta il bene, non accettare il male. Lo dice con fermezza ed eleganza, in un ottimo inglese, con la voce calda di un attore di teatro. Lo dice spesso quando incontra i suoi ospiti, quando inizia a raccontare la storia della sua resistenza non violenta.
Daoud proviene da una delle poche famiglie protestanti di Betlemme, di quelle famiglie che portano avanti una tradizione quasi dimenticata. Quando quelle terre si trovavano sotto la dominazione turca, il nonno ne aveva comprato un pezzo, una collina con tanto spazio per piantare ulivi e alberi da frutto. L’aveva pagato, onestamente, e i dominatori glel’avevano lasciato, da quel momento era tutto suo, aveva anche le carte dove c’era scritto il suo nome e la sua proprietà.
Era il 1916, il nonno si era trasferito sulla collina e aveva creato delle stanze nella roccia per la sua famiglia, delle grotte che fossero calde d’inverno e fresche d’estate. Era il 1916 e la famiglia N. incominciava a prendersi cura della collina, dei suoi ulivi e dei suoi alberi da frutto, alle porte di Betlemme. Incominciava a prendersene cura e non l’avrebbe più lasciata.
Daoud ha tanti fratelli e sorelle, qualcuno ha avuto la sorte di andare a vivere in altri paesi, lontani dalla Palestina. Qualcun altro è restato. Tutti, però, sono cresciuti nelle grotte della collina, mangiando intorno al fuoco e raccontandosi le storie sotto al cielo stellato, che non avrebbero mai dimenticato.
Amal, che vuol dire speranza, è un’infermiera e lavora nell’ospedale per bambini, dove passa quasi tutte le sue giornate. Amal è un’appassionata di risate e grazie ad un incontro che la vita le ha regalato ha conosciuto il mondo del clown e se ne è immediatamente innamorata. Quindi Amal è diventata un’infermiera clown: a due passi dal muro che quotidianamente dispera la gente del suo paese, lei cerca di farla ridere, di rendere più leggera questa vita prigioniera. Amal è tenace e guerriera, non le interessa ciò che gli altri pensano di lei, donna nel mondo arabo, senza marito e senza figli. Lei va in ospedale col sorriso e poi attraversa di corsa il traffico di Betlemme per andare alla collina, dove le piace concludere le sue giornate, dove la aspetta ogni sera il tramonto.
Naheda è una donna con gli occhi grandi e neri, un po’ magnetici, di quelli che trovi solo in medioriente.
Naheda lavora in un asilo nido, anche lei a due passi dal muro, un asilo con tanti bambini e poche idee per farli crescere come meriterebbero. Naheda però ci prova, ha tanta energia e anche se si sente sola prova a ritornare piccola e giocare con quei piccoli. È una grande mamma che ha cresciuto tanti figli oltre ai suoi figli, generazioni di piccoli di cui continua a prendersi cura, rispettando l’essenza di ognuno. Naheda è un’amante della libertá, ma lo deve sussurrare perchè in paese potrebbero non capirla, potrebbero fraintenderla (se la guardi bene negli occhi, però, il suo amore per la libertá ti arriva come un grido che non riesce a trattenersi). Lei pensa con nostalgia alla collina in cui è cresciuta, la pensa da lontano perchè ormai le sue giornate volano in cittá tra il suo lavoro e la sua casa, ed un marito da accudire.
E poi c’è Daher.
Daher è il fratello più grande e si chiama come il nonno, forse per questo è lui a portarne avanti la missione in maniera così perseverante. Daher non è mai uscito dai confini del paese, e probabilmente non ha mai vissuto un giorno lontano dalla sua collina. Daher ogni mattina parcheggia la macchina rossa e rumorosa, va a vedere come stanno le galline e le papere, va a liberare il vecchio asino. Col suo sguardo vigile e la saggezza di chi è nato nella terra, ti presenta instancabilmente la storia di quel luogo.
La collina è completamente circondata da insediamenti di coloni, sono sei adesso, resta solo lei al centro, isolata nella sua ingenua purezza.
È da ventinove anni che la famiglia N. sta lottando in tribunale per preservare la sua libertà, perché il governo degli occupanti vorrebbe averla, sarebbe perfetta per chiudere il cerchio degli insediamenti, per ospitare altri coloni che arrivano da lontano ed occupare sempre più spazio. Vorrebbe davvero averla, e per farlo le ha provate tutte: ordini di sgombero, confisca, minacce, assegni in bianco. Ma non c’è nessun prezzo che valga la collina.. e la famiglia N. possiede le carte dove c’è scritto il nome e la proprietà, mossa provvidenziale di quei signori turchi, più di cent’anni fa. La terra era del nonno, prima che i coloni esistessero, prima che il governo occupante esistesse.
Una notte di qualche anno fa sono arrivati i bulldozer, e avanzando dal buio della vallata si sono portati via migliaia di alberi. Fichi, viti, ulivi. Alberi cresciuti con fatica e pazienza, in decine di anni, in una terra senz’acqua (sì perché a loro è vietato di scavare pozzi e attaccarsi ai condotti.. quindi vivono di acqua piovana, quando c’è). L’ennesimo tentativo di spingere la famiglia N. al di là della collina, violento messaggio di un potere che spazza via la vita senza scrupoli.
Ma ognuno ha il suo potere : “Rifiutiamo di essere nemici” è la frase che hanno inciso sul cancello d’ingresso, tradotta in tutte le lingue, su una pietra difficile da smuovere. Il potere di non voler essere nemici, di non voler dichiarare guerra a chi te la sta già facendo intorno. Il potere di resistere nella non-violenza. La famiglia N. ha incominciato ad invitare amici vicini e lontani, ad accogliere ospiti di ogni tipo, a creare occasioni di incontro per fare stare insieme le persone, proprio lì sulla collina, per farla sentire più viva che mai, per non farla sentire sola. Visto che non hanno il permesso di edificare nulla, preparano tende e tendoni per alloggiarli, mettono i letti a castello nelle grotte più grandi. Ogni albero è stato piantato di nuovo dalle mani più diverse, ogni anno nuove foglie germogliano e la vallata sta tornando ad essere verde
.
Daher dal suo trattore sorride e parla l’inglese che ha imparato dai suoi ospiti, che sono sempre di più e arrivano sempre più da lontano. Con tutti questi amici in visita, i vicini coloni non possono fare i dispetti, sono costretti a lasciare in pace i fichi, le viti, gli ulivi e chi se ne prende cura.
Puoi scappare lontano e migrare in un altro paese, puoi rimanere seduto a lamentarti, puoi rispondere alla violenza usando la stessa moneta. Oppure puoi ripiantare gli alberi. E rimanere qui, col cancello aperto.
E poi ci sono altri fratelli e sorelle che non ho conosciuto. Ma la famiglia N. è un libro aperto, e ci saranno senz’altro mille altri capitoli da scrivere.
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