di Silvia Grugnaletti
Ricordo la sera che ho scritto la prima pagina del mio diario, della mia quinta volta in Angola, del mio primo mese da volontaria del Servizio Civile: era il 20 febbraio.
Il cielo prometteva pioggia e, in effetti, erano parecchi giorni che non pioveva su Huambo.
Giornate miti accompagnavano i nostri doveri da Servizi Civili, le voci della non-violenza e della solidarietà, oltre i confini della propria nazione.
In un momento storico italiano come questo, mi vengono i brividi a pensarci.
A pensare che io sono qui, in Angola, portatrice di valori che nella mia nazione stanno venendo meno.
Noi italiani, un popolo che ormai è diviso a metà, tra chi rivendica il primato della propria nazione e chi è convinto che non esistano frontiere.
Noi, in quanto Servizi Civili, stiamo cooperando, stiamo lavorando pacificamente lontani da casa, in una terra che ancora risente dei numerosi anni di lotta civile.
Di che cosa siamo testimoni?
In questo popolo sfruttato per secoli, percepisco tutta la rabbia tramandata da generazione in generazione: i portoghesi sono arrivati in Angola per la prima volta nel 1476 e, solamente nel 1961, gli angolani hanno cominciato a lottare per l’indipendenza e sembra che lottino tutt’oggi, ancorati ad un sistema che li illude di essere finalmente liberi. C’è un certo risentimento, delle volte, nei confronti degli occidentali, per tutto ciò che è accaduto in passato. Vedo i ragazzi più grandi del Centro di Accoglienza dove mi trovo, quando ritornano da scuola dopo aver guardato dei documentari o dei film sulla schiavitù africana o sulla lotta all’indipendenza angolana. Tornano a casa pensierosi e, indignati, mi domandano se possa esserci una spiegazione a questo passato che lascia cicatrici anche in chi la guerra non l’ha vissuta direttamente. Usano parole di odio verso chi li ha sfruttati per 485 anni e cerco di far loro capire che è successo tanto tempo fa e che non si può odiare qualcuno oggi, per ciò che è stato fatto in passato da altri. Così come in Europa, che ci sono stati anni di guerra e di vergogna, di odio sconfinato, che è entrato nella testa di molte persone e per molto tempo ne abbiamo risentito gli echi.
Oggi, quest’odio viene gridato a voce alta, legittimato da chi crede che sia un diritto mettere gli uni prima degli altri, che esistano dei confini ben precisi che si innalzano fino a diventare dei muri invalicabili, da chi crede che esistano solamente due tipi di persone: i buoni e i cattivi, dove, questi ultimi, sono senza speranze. Sono anni che cerco di far capire ai giovani incontrati in Angola, che non esistono meriti per essere più o meno felici di altri, così come non esistono colpe per aver provato tanto dolore in così pochi anni di vita.
Giorno dopo giorno, tento di renderli consapevoli che esiste un santuario in ognuno di noi, come ci disse Don Antonio una volta. E’ importante trovarne la chiave e, soprattutto, avere il coraggio per aprirlo. I ragazzi di oggi, di qualsiasi parte del mondo, hanno bisogno di sapere che ogni persona ha dentro di sé tutte le potenzialità per potersi realizzare, per riuscire a guardarsi allo specchio e non vedere più solo la tristezza e la solitudine, ma tanto altro.
E noi educatori abbiamo il dovere morale di seminare questi piccoli semi di consapevolezza nel cuore dei nostri ragazzi. Abbiamo il delicato compito di essere testimonianza, di trovare quelle parole e azioni che possano trasformarsi in cura per qualcuno. Parole e azioni che abbracciano l’altro, facendolo sentire libero.
Ecco, in questo momento vorrei stringere forte questi ragazzi facendoli sentire liberi. Alzo gli occhi, e mi ricordo di pregare: ho chiesto pazienza e forza, per me e per loro, che forse non hanno compreso fino in fondo che anch’io, anni fa, ho iniziato una rivoluzione che mi ha reso prima donna, poi un’ educatrice senza frontiere e oggi una volontaria del Servizio Civile, che si chiede dove dobbiamo collocare le vittime di anni di abusi, i sottomessi, gli umiliati, i poveri, gli innocenti, coloro che sono il terzo mondo per se stessi e per il resto dell’umanità.
Noi, come servizi civili, di cosa siamo portatori?
Siamo portatori di valori che esistono nel cuore di tutti, ma che non vengono trattati con cura. Portatori di poesia, di arte, di creatività, d’immaginazione, di amicizie oltre i confini, dei baci sulla fronte, della matematica spiegata in tutti i modi possibili, di ninne nanne cantate a bassa voce. Siamo portatori di chi crede che, anche una sola goccia, può fare la differenza nell’Oceano, che un seme deve pur essere piantato anche se l’ambiente gli è ostile. Siamo portatori di seconde possibilità e di piccole speranze accese in questi anni e non lasciate spegnere dal tempo e dai cambiamenti. Siamo portatori di chi crede in noi e non ci abbandona.
Sì, mi sembra di aver deciso di partire anche per voi, per tutti voi che credete in queste mie parole cercate per anni, quando non capivo perché continuavo a lottare contro dei muri troppo alti e resistenti, fatti di futilità e rabbia. Poi un giorno una persona mi ha scritto, in una lettera, di non smettere mai di essere innamorata dell’animo umano.
Era il 2015 ed era la mia prima volta come volontaria per Educatori Senza Frontiere in Angola.
È vero, noi educatori siamo innamorati dell’animo umano, di ciò che c’è al di là del filo spinato, della corazza che, per forza di cose, chi è fragile costruisce attorno a sé per difendersi. Siamo innamorati della bellezza e della rabbia che muovono il mondo e le persone ad alzarsi la mattina.
Allora io mi sono alzata una mattina che ero arrabbiata con il mondo e in Italia non ci volevo più stare, ed ho trovato il coraggio di dire parole che non avevo mai detto, per rompere quei muri che mi sembravano invalicabili. Dall’altra parte, ho trovato altra bellezza e rabbia, di trentasette ragazzi che stanno ancora cercando di intravedere quel santuario che portano dentro al cuore.
Ed ho deciso di mettermi al servizio dello Stato Italiano perché, nel mio piccolo, posso mettere a tacere quelle voci d’odio che gridano a casa nostra, perché posso essere testimonianza di quei valori di cui non ci stiamo prendendo cura. Finché quell’odio resta solo nella mente delle persone, non è troppo tardi. Lo sarà quando riuscirà a raggiungere il cuore, ma c’è il nostro santuario che ci protegge.
Troviamo la chiave e custodiamola con amore.
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