Scritto da Elisa Beltrami
Chissà se esiste un’età giusta per cambiare, per modificare la strada intrapresa. Io a questo ancora non so rispondere, so solo che quando ho scelto di dire “SI” alla domanda: ”Chi dà la disponibilità a partire?” ho fatto una scelta di pancia, perché alla fine mi sentivo anche un po’ “grande di età” per iniziare ora un cammino del genere e…tra tutte le mete, alla fine mi sei capitata tu.. Madagascar…
Ambalakilonga. Era Novembre… zaino pronto e si parte verso quel luogo che ora, alla fine del mio viaggio, posso dire che, ti accoglie a braccia aperte e ti fa tornare una persona diversa. Quella chitarra, quelle due voci e tu che facevi la tua coreografia per entrare in scena quella, come avete detto voi “tremenda voglia di vivere”, che mi ha fatto scendere una lacrima e mi ha fatto capire sempre di più che, c’è sempre e solo da imparare da voi ragazzi di Ambalaki.
Sto facendo difficoltà a buttare giù tutta la valanga di sensazioni, emozioni, suoni e colori che i miei occhi, il mio cuore ed il mio cervello ha immagazzinato in quei, per me, pochi giorni passati a Fianarantsoa. Un territorio colorato tra il verde delle risaie ed il viola degli alberi, i colori delle case pitturate come se fossero dei cartelli pubblicitari a contrasto con quelle color terra.
Continuo a pensare che non si può far capire alla gente che ti chiede, quello che scatena dentro un viaggio del genere. Tutto è nascosto negli occhi di chi incroci nel cammino, che poi sta a te non camminare a testa bassa e non restare indifferente. Poi gli sguardi, come me, hanno fatto un percorso. Il percorso più difficile e bello io l’ho fatto con i ragazzi del carcere, dove sono entrata il primo giorno dove mi accompagnava anche un cielo grigio e dove invece sono uscita il giorno dei saluti con il sole nel cielo, ed un sorriso cosi grande che mi veniva dal cuore e mi riempiva il cuore. Un sorriso che non provavo da tanto tempo, o forse, cosi non lo avevo mai provato. Il primo giorno che ho messo piede li dentro… non avevo paura di loro, avevo paura di me, di come io avrei reagito e avrei affrontato tutto questo.
A catturare il mio sguardo tra tanti ragazzi c’era lui. Un “omone con la camicia”, che poi grande sicuro non era. Ogni incontro si metteva sempre nello stesso posto, e vicino sempre lo stesso compagno, che alla fine ho capito che gli traduceva quello che sentiva, forse in qualche dialetto malgascio perché lui non conosceva altra lingua.
Ricordo ancora la prima cosa che gli abbiamo chiesto di disegnare, il suo timore, il suo non sapere fare, e l’osservare gli altri per capire, cercando però di non incontrare i loro sguardi. Era sempre evidente il suo impegno, il suo lento imparare a scrivere il suo nome. Quanto conta la forza di volontà… Incontro dopo incontro sempre stesso posto, stessa posizione.
I miei occhi erano sempre rapiti da questo omone, di cui non sapevo nulla ma, di cui avevo memorizzato tutti i suoi disegni con la speranza di capire un po’ di più chi fosse. La musica è stata la chiave per vederlo sorridere, vederlo ballare in mezzo agli altri ma senza timore, quelle sue espressioni del viso che accennavano un sorriso, quei suoi occhi che si erano riempiti di una luce diversa è il regalo che mi porto dentro e che voglio custodire tra le cose più belle che il Madagascar mi ha regalato.
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