Scritto da Elisa Morbidelli
Oggi voglio parlarvi del mio viaggio. Potrei parlarvi delle tantissime esperienze vissute, dei costumi Boliviani, così diversi dai nostri, della possibilità di andare in 6 in una sola moto, di vendere una bevanda fresca in sacchetti di plastica, potrei parlarvi della loro estrema calma in qualsiasi tipo di situazione. Potrei, ma non oggi.
Oggi voglio parlarvi di Maria Fernanda e del percorso che ci ha portate a stringerci in un forte abbraccio.
Avevo dormito male quella notte, tanti pensieri e una buona dose di agitazione per l’incontro che avremmo avuto la mattina seguente. Incontrammo 13 donne quel giorno, abitavano tutte insieme in una stanza stretta, troppo stretta e con un buco nel tetto in corrispondenza della cucina, che permetteva loro di sognare alla vista delle stelle, o almeno così raccontavano. Entrate, iniziai a guardarmi attorno, ero circondata da volti tristi. Uno però, mi colpì più degli altri e fu proprio quello di questa ragazza, mi soffermai molto ad osservarla ed ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano allargavo le labbra in un grande sorriso, aspettandomene uno di risposta, beh con lei non avvenne. Questa cosa mi chiamò molto l’attenzione, era così strano per me sorridere e non ricevere altrettanto. Quella mattina avevamo portato con noi un oggetto caro messo in valigia e attraverso la storia di questo oggetto, volevamo presentarci, raccontando la nostra storia. Chiedemmo anche a loro di sceglierne uno e, dopo aver dipinto il proprio nome nero su bianco, di appoggiarlo sul telo per poi condividerne le storie. Nel raccontare, tante di loro avevano lasciato cadere le proprie maschere, mostrandoci loro stesse, con le loro lacrime e i loro sorrisi. Arrivò anche il suo turno di raccontare, e dopo un primo istante di durezza, i nostri sguardi si incontrarono nuovamente e i suoi occhi già colmi di lacrime, esplosero senza riuscire più a trattenersi. Iniziò così la nostra conoscenza. Non parlammo molto, anzi, non parlammo per niente ma c’era una strana alchimia tra noi.
Pian piano tutte presero la parola e per ultima parlò la donna che per prima aveva scritto il suo nome al centro della tela, sembrava la più dura e la più forte di tutte. Nel condividere con noi la storia del suo anello ci spiegò che non era un accessorio qualunque ma era lì perché le ricordava di aver sbagliato una volta, di aver pagato per questo ma soprattutto le ricordava di non voler farlo più. Era lì e gridava con lei, con tutte loro: “Quiero ser mejor!”
Tutto d’un tratto non eravamo più in carcere, la cella n°9 non sembrava più così piccola e triste. Nessuno di noi era più preoccupato di dover interpretare un ruolo. Eravamo 18 donne che passano una mattina insieme per conoscersi meglio. Dopo aver parlato e sognato insieme, ci lasciammo, con la promessa di tornare, cucinare e pranzare insieme.
La mattina seguente le donne erano eleganti come non mai, tre si dedicano alla cucina, le altre entrate nell’onda dei ricordi, raccontano di ricette imparate quando erano bambine, riescono persino a descrivere la sensazione provata nell’assaporare quelle prelibatezze. La stanza era piccola ma riuscimmo ad allargare il tavolo per mangiare insieme, proprio come una famiglia in un giorno di festa, sorrisi, risate, regali. Doni piccoli, simbolici ma fatti con il cuore. In quel caso fu Maria Fernanda a venirmi incontro, con un gran sorriso mi porse quel fermaglio per capelli rosso che lei stessa aveva realizzato all’uncinetto. Non potevo essere più felice!
Era ora di andare, cosa potevamo dirci ancora? Ci abbracciamo forte con la promessa di non dimenticare e la certezza di avere persone amiche dall’altra parte del mondo che con estrema dolcezza ti guardano dicendoti: “Vuelva pronto!”. Ci lasciammo così, con la speranza di rivederci un giorno, magari, ma fuori di lì e condividere ancora altri istanti di tempo.
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