Scritto da Elisa Frezza
foto © Massimo Sestini
Continua il flusso inarrestabile di sbarchi in Italia. Proprio pochi giorni fa sono arrivate a Palermo 717 persone, tutte tratte in salvo nel corso di varie operazioni condotte nel Canale di Sicilia. Con loro anche le 12 salme di coloro che, nella giornata di martedì, non sono riusciti a sopravvivere al naufragio. Forse troppo poche perché se ne parli. Sembra quasi che le nostre coscienze si assopiscano tra una tragedia e l’altra, per risvegliarsi solo quando si parla di centinaia di vite spezzate.
Mi guardo intorno in cerca di interesse e solidarietà verso la condizione dei migranti, ma percepisco un inasprimento sempre più forte. In troppi si cuciono addosso questo antipatico e inespugnabile diritto di appartenenza verso il posto in cui sono nati e che sono convinti, chissà perché, di meritarsi. In troppi si sentono minacciati e invasi, in “casa propria”. Ma cosa vengono a fare? Perché non se ne stanno a casa loro?
Ogni affermazione di questo genere è un colpo al cuore. A volte non riesco nemmeno a replicare e sento solo una grande ferita che brucia e che temo non si rimargini più. In questi anni ho sentito parlare di provvedimenti introdotti senza la minima umanità: inviti a trasgredire le leggi del mare, respingimenti, muri che si innalzano, frontiere che si chiudono, ruspe in azione e, come se non bastasse, lo sfruttamento e la speculazione su queste misere vite che vengono messi in atto nel nostro paese. Qualche sera fa ascoltavo Fiorella Mannoia parlare, nella più bella piazza della mia città, e affermare che non siamo più in grado di provare compassione. E’ proprio così. Viviamo in una società che ci rende sempre meno predisposti a soffrire con, a metterci nei panni dell’altro.
E allora, mi chiedo, se fossimo noi ad essere nati lì, come ci comporteremmo? Vorremmo anche noi provare a riscattarci, a rischiare tutto per poter andare a stare dove si vive meglio?
Servirebbe un ribaltamento del punto di vista, per poter comprendere appieno le condizioni dell’altro.
Si avvicinano le partenze estive degli educatori senza frontiere, questo piccolo “esodo al contrario” di persone che preparano i bagagli e vanno a trascorrere un periodo in Paesi che alcuni chiamano “del sud del mondo”, ma noi li chiamiamo con il loro nome: Brasile, Bolivia, Angola, Madagascar, Ruanda, Romania, Honduras. Partono perché sentono forte l’esigenza di vedere con i loro occhi come si vive “laddove si sta peggio”, partono per sentire che siamo tutti cittadini dello stesso mondo, partono per poi ritornare e rileggere la vita in modo differente, sì perché dopo essersi messi a testa all’ingiù per poterla comprendere, sanno rialzarsi e, dopo un iniziale giramento di testa, si accorgono che riescono a guardare meglio e che sarebbero stati forse persone diverse, se non avessero provato, almeno una volta nella vita, a capovolgere il mondo.
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