Scritto da Alice Viganò

Anche oggi qui alla Maison des Enfants è tutto un brulicare di bambini saltellanti: sono studenti di un doposcuola un po’ travagliato, sono cantanti dalle voci caotiche e squillanti, ballerini, attori, calciatori di serie A, improbabili giocatori di carte, lanciatori di elastici, parrucchieri provetti, esperti coccoloni.

Se chiudo gli occhi e penso a questo posto, la prima immagine che mi viene in mente è il piccolo Johny, che mentre gli altri sono concentrati in una partita di pallone agguerritissima viene accanto a me, gioca un pò con i miei capelli, mi guarda dritto negli occhi, sorride da furbetto, e con una destrezza che mi fa sentire un pollo mi sfila dal collo la sciarpa. Non ho il tempo di alzarmi, di raggiungerlo e di giocare a rincorrerci per riprendermela: rimango senza fiato a guardarlo volteggiare leggero nell’aria, arrampicarsi in alto e poi saltare, ricadere sempre in piedi leggero, roteare, danzare, giocare con quella mia stoffa dai mille colori che è un pezzo importante della mia vita di casa che è ormai compagna fedele di ogni nuova avventura.

Sembra un vero ballerino Johny, ma penso tra me e me che la sua unica scuola dev’essere stata la strada…e che dev’essere lì che i suoi piccoli piedini sono diventati così agili e prensili e il suo corpo leggero.

Ha una grazia che mozza il fiato il piccolo Johny, 9 anni, ma che supera a malapena a un metro di altezza. Fisicamente ne dimostra cinque a dire tanto, anche se poi la sua determinazione e la sua forza fanno intuire qualche anno in più. Sono così…un garbuglio di contraddizioni, i bambini di qui: spesso troppo piccini per la loro età, con quel fare superiore da uomo vissuto che la sa lunga e non ha bisogno di niente e di nessuno…ma a ben guardare quella scintilla di curiosità, innocenza e voglia di coccole e giochi tradisce la vera età.

Chiude gli occhi mentre danza, e io lo immagino sopra ad un immenso palcoscenico, illuminato da luci colorate che lo inseguono avide di nuove piroette, di nuove acrobazie.

E’ lui a svegliarmi dal sogno riavvolgendomi la sciarpa introno al collo, ridendo sonoramente.

Gli amici lo hanno chiamato con un fischio, e lui è felice di scattare nuovamente in mezzo alla mischia, pronto a dare un altro calcio al pallone, per poi stare chissà quanto tempo ancora ad inseguirlo solo da lontano con lo sguardo: troppo veloce per le sue gambette corte ma agili, che vola troppo in alto sopra di lui, verso quel cielo che oggi mi ha indicato serio con il dito e ha chiamato Andriamanitra: “Dio”.

 

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