Scritto da Elisabetta Fumagalli
“Tu prova ad avere un mondo nel cuore, e non riesci ad esprimerlo con le parole…” (F. de Andrè)
24 dicembre. Dopo un lungo viaggio, il rientro a casa.
“Aspetta, ma quale casa?”
“Quella che hai lasciato prima di partire”.
“E quella che hai trovato quando sei partito, quella che ti ha accolto, non è forse casa anche quella?”
“Sì è casa anche quella. Ma così suona forse un po’ riduttivo…E’ a casa che mi sono sentita, è una grande famiglia quella che mi ha accolta, eppure è ancora molto di più quello che ho trovato.”
Ma come fai a spiegarlo…Come fai a spiegare con le parole se quello che hai vissuto in quel lasso di tempo, breve o lungo che sia, non ha avuto bisogno di parole, perché è impresso nei tuoi occhi, disegnato sul tuo corpo, ha invaso i tuoi sensi. E’ la polvere sui vestiti, è quel nero sui piedi che fatica ad andar via.
Parliamo sempre di quando dobbiamo partire: curiosità, aspettative, sogni, viaggio…Ma che dire invece del ritorno? Che dire di quel momento in cui ci sente divisi tra corpo e cuore? Il corpo qui con noi e il cuore là, in quella terra che ci siamo lasciati alle spalle. Divisi tra due realtà che sembra così difficile poter riconciliare.
Che dire del cambiamento più forte, che avviene proprio quando facciamo il nostro rientro a casa? Penso che tornare sia sempre la parte un po’ più difficile, per questo si è meno propensi a parlarne.
L’unica cosa di cui si sente il bisogno non appena ritornati è forse solo un po’ di silenzio, dentro e fuori di noi, per capire, rielaborare. Il silenzio per fare ordine nel caos dei propri pensieri, per ripercorrere la strada fatta, per riunire in un’unica immagine tutti quei volti che hanno sfiorato le nostre vite, quei mondi prima paralleli ed ora invece così profondamenti intrecciati alla nostra vita.
Tornare significa per me tante cose: nuovo inizio, cambiamento, fatica…Affrontare la fatica di riprendere quella quotidianità che avevi lasciato, ma con la consapevolezza che qualcosa è cambiato. Ma cosa?
Metti piede nella tua stanza, ti accorgi che tutto lì è rimasto esattamente come lo avevi lasciato, nulla è cambiato. Eppure tutto si è trasformato dentro di te, e avverti un forte spaesamento.
Quando si presenta l’occasione provi a raccontare qualcosa…Racconti come hai trascorso le tue giornate là, i luoghi che hai visitato, le attività che hai svolto, le differenze e le somiglianze.
Ma il viaggio vero, quello vissuto nella sua essenza profonda, ha un significato molto più grande ed è cosa ben più difficile da trasmettere.
Ma se tenersi tutto dentro a volte può sembrare più facile, forse stiamo dimenticando che tornare significa anche responsabilità. Quante volte prima di partire ci è stato chiesto, o ci siamo domandati, “Perché andare e non restare qui dove sono?”. Io penso che partiamo e poi ritorniamo per essere dei ponti: andare, muoversi, mettersi in cammino verso l’altro; sentirsi ospiti, sperimentare altre prospettive, conoscere nuovi modi di pensare, sentire, agire. E poi tornare e riportare.
Essere testimoni, ognuno in modo diverso: a casa, con gli amici, nella propria quotidianità, nel modo di gestire il nostro tempo e di costruire le nostre relazioni, nel nostro modo di essere educatori. Essere testimoni del fatto che è realmente possibile essere e vivere diversamente: diversamente cittadini, diversamente educatori, diversamente studenti, diversamente amici, diversamente figli, diversamente genitori.
Quindi…Partire per ritornare. Partire è elettrizzante, tornare è faticoso, ma è una sfida altrettanto intensa.
Arriva sempre il momento in cui raccontare si fa necessario e, in fondo, non è nemmeno poi così male: raccontare significa anche poter continuare a viaggiare, significa “Ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini”, come ha detto Jose Saramago.
In questo spazio raccontare tutto è impossibile, però mi piacerebbe lo stesso provare a lasciare alcuni frammenti che ho annotato nel corso di questa avventura.
Partendo…
Ho lasciato a casa…
La pigrizia, e ho portato con me la curiosità.
La timidezza, e ho scoperto l’importanza del mettersi in gioco continuamente.
Un armadio stracolmo di vestiti, mi sono ricordata che essenzialità significa felicità.
Le insoddisfazioni, ho trovato la gioia nelle cose più piccole e semplici.
Le paure, e mi sono ritrovata ad affrontarne di nuove e di più grandi.
Agio e comodità, ho scoperto quanto cambiano i ritmi delle tue giornate quando l’unico mezzo che hai a disposizione per raggiungere un luogo sono i tuoi piedi.
Ho portato con me…
Scarpe chiuse, e ho trovato tanti piedi nudi.
Tante certezze, ho dovuto rimetterle tutte in discussione.
La presunzione di avere qualcosa da insegnare, e ho scoperto quante cose ho invece ancora da imparare.
Tanto affetto, ne ho ricevuto di più.
La paura di non riuscire a comunicare, e ho sperimentato che si può lo stesso ridere insieme anche se si parlano due lingue differenti.
La paura del pregiudizio, ma ho scoperto che il giudizio non serve laddove si può essere uguali e diversi allo stesso tempo.
Pensavo di incontrare solo povertà nuda e cruda, ho incontrato soprattutto talenti.
Pensavo di essermi allontanata dalle mie radici, le ho ritrovate in quella terra rossa.
Ho riscoperto l’autenticità nelle relazioni, la bellezza delle piccole cose, la profondità di quelle semplici.
Sono partita pensando di entrare in punta di piedi in una nuova realtà, e quella realtà mi ha travolta e abitata.
Rivedo quell’intreccio di mani e piedi di colori diversi, e penso a quanto potrebbe essere facile abbattere d’un colpo molte delle frontiere che spesso ci separano.
24 dicembre. Mentre il cancello blu di Ambalakilonga si chiude dietro di noi, penso a uno dei punti del Decalogo del Camminatore di don Antonio: “Nella vita non interessano le partenze e gli arrivi, ma le traversate”. Ho pensato a cosa questo significa per me, e il mio Veloma si è fatto meno duro.
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