Scritto da Marica Montella
Chiudi gli occhi Mary, chiudi gli occhi per incrociare di nuovo, uno dopo l’altro tutti quegli occhi che sono penetrati e si sono specchiati nei tuoi.
Chiudi gli occhi e vedi scorrere un fiume di sguardi: occhi sorpresi di chi ci guarda dai finestrini dei propri pulmini bianchi e azzurri, mentre siamo incastrati nello stesso traffico di Luanda;
gli occhi sospettosi delle coriste di Calima che s’illuminano gioiosi quando scoprono che, quelle bianche, sono educatrici volontarie; gli occhi curiosi dei bambini che ti fissano e ti accerchiano per capire chi sei, come sei, cosa fai.
E chissà com’erano i miei occhi per loro? I miei occhi per quei sessanta bambini e ragazzi del Centro de Acolhimento Criança Feliz che aspettano solo che tu li guardi, per parlarti.
Abbiamo iniziato per gioco a scambiarci degli occhiolini, ma poi sono diventati il nostro linguaggio per salutarsi, per interrogarsi su come si stava, per dirsi ta fixe (fico!) o tudo bem (tutto bene), per dirmi ci penso io ad asciugare il pavimento, tu non preoccuparti e aspettami fuori che ti sporchi le scarpe. Piano a piano li incrocio tutti i loro occhi, sono così tanti e sono così potenti che m’invitano a guardarli, a capirli e a conoscerli. E così chiudo gli occhi e vedo gli occhi di Mingo che ti scrutano e ti scannerizzano da vicino e da lontano; gli occhi di Tchu Tchu che si stupiscono scoprendo gli occhi azzurri di Sara, per lui probabilmente inimmaginabili; gli occhi di Luciano che ti interrogano come fosse un acuto filosofo; gli occhi fraterni di Ernesto che mi dicono di star tranquilla poiché ci pensa lui a calmare Leon; gli occhi di Zazito che si illuminano di gioia poiché riesco a insegnarli la kizomba, imparata io stessa dai decani e perché così ora possiamo ballarla insieme; gli occhi timidi di Callisto che si abbassano incrociando i miei; gli occhi dolci e preoccupati di Andrei che pensava ce ne fossimo andate senza salutare; gli occhi di Mandascuva che si infilano, con un’ingenua prepotenza, tra i miei e quelli di un altro, poiché desiderano avere i miei solo per sé. Sei invasa continuamente da tutti i loro sguardi, come quelli compiaciuti e soddisfatti perché hai imparato velocemente i passi dei loro balli e le parole di alcune loro canzoni.
Ma a parlare tra i loro occhi, ci sono stati anche i miei. Occhi che la mattina li hanno interrogati, con naturalezza e ironia, sull’ordine e la pulizia dei loro guardafato, mala e cama (armadietto, valigia e letto); occhi che sorridono fermandomi a guardare i loro modi buffi; occhi che si sono affacciati la sera alle loro non-finestre della camera, per dargli la buonanotte.
Occhi i miei, i nostri, quelli delle mie compagne che si capiscono al volo e si inteneriscono di fronte ai gesti di cura fraterni e affettuosi dei più grandi verso i piccoli. Occhi i miei, i nostri, che si sono scontrati fulminanti con quelli di chi si nasconde dietro all’uso violento di un bastone, perché in fondo è lui ad aver paura di tutti i loro occhi. I loro occhi, sono occhi di chi ha bisogno di essere riconosciuto, guardato e ascoltato. Intrecci di sguardi, come fili invisibili potenti che chiamano.
Mi hanno chiamata e attirato a sé, come una calamita, gli occhi di Elias. Occhi sorridenti, occhi che hanno saputo aspettare, si sono messi in disparte, mi hanno guardato da lontano, facendomi sentire la loro presenza costante e mai invadente. I suoi occhi, aspettavano che i miei occhi fossero liberi per poterli incrociare, per poterci dire che andava tutto bene e che anche se i miei occhi avevano parlato con molti altri occhi, i suoi per me erano speciali. Aveva capito benissimo lui, che non potevano essere solo i suoi, gli unici occhi per me, da conoscere e a cui voler bene, affezionandomi. Sono stati i suoi occhi, una sera, a cercare di nascondersi dai miei, per proteggermi dalle lacrime che li stavano invadendo. Non capivo, li ho cercati e guardandoli così grandi e bagnati da lacrime silenziose, sono rimasta lì a interrogarli, a cercare di placarli ma erano più intensi dei miei, anche se così fragili. E così, poco dopo, nascosti dai suoi, anche i miei si sono spezzati e sono stati invasi dal mare.
Ora apri gli occhi Mary, aprili e richiudili ogni volta che vorrai rincontrarli, perché ormai ce li hai fotografati dentro tutti quelli sguardi e quelle piccole luci che ti hanno ricordato di avere degli occhi. Occhi che possiedono la potenziale bellezza di potersi parlare in modo universale sempre, incontrandone altri.
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