Scritto da Cecilia Barbesi
Rwanda 2014.
Arriviamo, per la prima volta in questo Paese, a vent’anni esatti dal genocidio, dalla guerra civile tra Hutu e Tutsi.
Il nostro viaggio alla scoperta del Rwanda comincia il 1 Agosto, partendo dalla capitale, Kigali, accompagnate dal dolce Alphonse, che ci porta a visitare il Museo Nazionale del genocidio. Esso è travolgente, così completo, complesso, immediato; storia, oggetti, video ed immagini ci lasciano senza parole.
Senza parole, ma con infinite domande: per Alphonse, ad esempio, che all’epoca aveva vent’anni e, oggi, negli occhi il desiderio di non parlarne; domande per tutti quegli sguardi che incrociamo mentre ci aggiriamo per Kigali e ci chiediamo se quelle persone che camminano tranquillamente per le strade, fossero presenti nelle stesse, durante quei maledetti cento giorni, se avessero dei familiari tra le migliaia di Tutsi massacrate nel 1994.
Rwanda 1994.
Il genocidio si inserisce in un contesto di rivalità etniche che provocarono stermini di massa sin dal 1962, anno dell’indipendenza dal Belgio.
La percezione di una divisione etnica, da parte della popolazione rwandese, è in gran parte un effetto del dominio coloniale europeo; furono i coloni belga, infatti, a classificarli in Hutu e Tutsi, introducendo addirittura carte d’identità: fu un’operazione piuttosto «semplice», se si considera che i Tutsi rappresentavano la parte più ricca della società, poichè possedevano la terra,mentre gli Hutu la lavoravano; la separazione venne attuata anche sulla base di presunti caratteri somatici, che designavano gli Hutu come di pelle più scura rispetto ai Tutsi.
La rivalità tra i due gruppi sfocia in una vera e propria guerra civile, dopo che, il 6 Aprile 1994, l’aereo presidenziale di Habyarimana (al potere con un governo dittatoriale dal 1973) viene abbattuto da un missile. Subito iniziano gli scontri e per 100 giorni vengono massacrate più di un milione di persone, fino a quando, nel mese di Luglio, interviene l’Rpf (Fronte Patriottico Ruandese), che sconfigge le forze governative.
Il governo Hutu aveva pianificato il genocidio e, negli anni precedenti aveva emarginato, i Tutsi, talvolta rendendoli schiavi degli Hutu e permesso che le donne fossero spesso vittime di violenza sessuale.
Scrivo queste informazioni, poichè, quantomeno in Italia, difficilmente si incontra il genocidio ruandese durante proprio percorso di studi e le notizie, all’epoca, furono poco approfondite. Forse perchè, come trovo scritto su Wikipedia:«La storia del genocidio ruandese è anche la storia dell’indifferenza dell’Occidente di fronte ad eventi percepiti come distanti dai propri interessi.»
Basti pensare all’atteggiamento dell’Onu, che non si curò delle richieste tempestive di intervento, o alla Francia che, non solo non volle fermare i massacri, ma fu la principale fonte di armamento e addestramento delle forze militari Hutu.
Inoltre, molti autori delle stragi sono rimasti impuniti, poichè protetti da paesi occidentali, come la Gran Bretagna, a causa dell’assenza di trattati di estradizione.
Ed io così rimango, con la rabbia, l’incomprensione e con mille interrogativi ancora, perchè non ho il coraggio di affrontare l’argomento con i ruandesi, di chiedere agli educatori della nostra Comunità se ricordano, nè sono certa di voler sapere se qualcuno dei nostri ragazzi fosse allora bambino, di chiedermi se qualcuna delle loro storie di ragazzi di strada abbia a che fare con quegli episodi e tremo a guardare uno di noi, pensando a suo fratello, vittima dell’anno 1994.
E c’è molto altro che non capisco, come questo Stato presenti uno spirito così unitario, come, tra la gente, io riesca a respirare profonda solidarietà.
E, allora, penso a noi, a quanto siamo distanti da tutto questo, dal resto del mondo, penso alla mia generazione, profondamente lacerata da differenze imposte, incapace di collaborare ed agire per un bene comune; penso ai bambini con cui lavoro in Italia, a quanto sarei felice di vederli sorridere e prendersi per mano con tanta facilità, a non fare caso se essa è bianca o nera, pulita o sporca.
Infine penso ai nostri ragazzi di Casa Exodus, alla loro capacità di ridere di nulla, alla speranza che sono in grado di trasmettermi, speranza che anche noi possiamo stupirci, imparare l’essenziale, agire in solidarietà, spontaneamente e mi commuovo: a sentire queste persone cantare insieme ogni mattina, loro, che hanno superato fratture profonde, Storia buia e insormontabile e guardano al futuro con occhi splendenti.
E mi vengono i brividi, ogni volta che passo davanti alla scuola pubblica e leggo la scritta «United we stand, divided we fall.»
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