Scritto da Rosario Volpi
Me lo ritrovo davanti alla porta di Ambalakilonga così, l’alito che puzza terribilmente d’alcool, lo sguardo assente. Ha combinato un casino stanotte ed è finito alla polizia. E’ uscito stamattina dal violent, dove l’avevano rinchiuso in mezzo ad una pozza di pipì. Vuole parlarmi, si vergogna perché ha bevuto come una spugna e sa che questo mi dispiace. E’ solo e non riesce a portare il peso delle sue stesse cazzate. E’ fragile, mi chiede un coltello, lo cerca perché vuole farla finita. Passiamo tutta la giornata con lui io e Giorgio, tra vomito e delirii, ma è uno dei nostri.
No, non è iniziato particolarmente bene questo 2013.
Incontriamo i nostri ragazzi, perché voglio dire loro che sento che c’è qualcosa che non va, li guardo negli occhi, e tutto sembra andare bene, e invece scopriamo poi che in 4, i più piccoli, da mesi rubano nella nostra dispensa, rivendono e spendono il ricavato comprando il silenzio di tutti gli altri. Ipocrisia e omertà che suonano come una sconfitta bruciante alle relazioni vere e sincere che hai cercato di costruire in questi anni.
E poi c’è chi fugge, chi fa lo strafottente, chi preferisce sopravvivere piuttosto che impegnarsi.
Educare ed educarsi insieme ai nostri ragazzi non è semplice, l’abbandono, la strada, la vita, li hanno resi fragili, vulnerabili, sfiduciati, apatici, arrabbiati e sospettosi e talvolta opportunisti.
Quando uno dei nostri ragazzi fallisce, ti fa riflettere sull’efficacia e il senso dello stare accanto ai giovani. Noi giovani come loro e dopotutto, solo giovani educatori.
Fatichiamo ogni giorno per dare protezione e affetto, ci diamo da fare per trovare una scuola adatta ad ognuno, un lavoro serio, ci sforziamo di costruire insieme ad ognuno di loro un progetto di vita… e tutto questo per cosa?
Certo, potremmo consolarci pensando a quei ragazzi che ce l’hanno fatta, a quei giovani che sono passati dalla nostra comunità e adesso sono integrati e cercano una vita vera e felice, felici come si può esserlo qui. Potrei convincermi che il nostro lavoro, i nostri sacrifici, allora non sono stati inutili.
Potrei consolarmi con le parole di don Antonio, quando dice che il 50% delle cose che fa ogni giorno sono sbagliate… e se anche mi attestassi ad un 70% sarebbe già un buon risultato.
Però, però sento d’ aver fallito, di aver sbagliato qualcosa, di aver lavorato inutilmente.
Eppure, davanti a queste sconfitte, le loro, le nostre, pensando ad ognuno di loro, alle loro storie, non mi pento di avere “sprecato” tempo, fatiche e risorse, perché potessero anche solo per poco tempo sentirsi amati e importanti per qualcuno.
E poi c’è Tolotra, che nella sua angoscia piange perché la madre, donna di strada, quella strada da cui lui è venuto via, sempre ubriaca, è di nuovo incinta di chissà chi, e poi suo fratello più piccolo che gli sta dando pensieri , e lui piange perché sa che tutto questo e più grande dei suoi 14 anni. In un abraccio, quelle lacrime, lavano via ogni dubbio e incertezza, lavano via le sconfitte e lo scoraggiamento. E di nuovo decidi che vuoi esserci che vuoi restare, fosse anche solamente per asciugare una lacrima.
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