di Daniela Cadeddu

Cari lettori,

Quando ho scoperto che sarei andata ad Ambalakilonga, non sapevo esattamente cosa aspettarmi, o meglio, lo sapevo molto bene perché sono tante le storie che i miei compagni di Esf mi hanno raccontato, eppure non avevo nessuna aspettativa: volevo partire senza aspettative perché per me è il modo migliore per stupirsi quando intraprendi qualcosa di nuovo.

Mi sono ritrovata così nella comunità dei ragazzi a Fianarantsoa, in Madagascar, immersa in una realtà completamente diversa dalla mia.

In una realtà in cui ti senti spietatamente inutile ma in cui gli altri ti fanno sentire costantemente un regalo: questo mondo va avanti anche senza noi volontari, non hanno bisogno di te ma nonostante questo mi sono sentita continuamente vista, importante, speciale per tutta la comunità che ho potuto abitare.

Questo viaggio mi ha regalato la possibilità di sperimentarmi nelle attività educative e di diventare la regina della slackline una linea sospesa tra due alberi che è riuscita ad accogliere tutti: è stata camminata dai più piccoli e dai più grandi, con paura, adrenalina, fiducia, in equilibrio e disequilibrio ma sempre con il loro tempo.

Quello che ho vissuto lì mi ha permesso inoltre di riscoprire valori che nella mia vita quotidiana avevo perso di vista. Una delle esperienze più toccanti è stata la preghiera quotidiana con i ragazzi. A fine giornata, alle 18.30, ci riunivamo  con loro in cappella per sentirli cantare insieme il “Padre Nostro”. Era un momento intimo, di purezza e connessione che, anche se difficile da spiegare a parole, portava una pace indescrivibile. In quei momenti, ho riscoperto il significato del pregare, del raccogliersi in comunità e di abbandonarsi a qualcosa di più grande.

In Madagascar, ho imparato di nuovo a sognare.

Non l’avevo più fatto da tempo, ma lì, seduta attorno a un falò con i ragazzi, sotto un cielo stellato che sembrava abbracciarci, ho iniziato a sognare di nuovo. Con loro, ascoltando i loro desideri di aiutare le loro famiglie, di migliorare la loro vita, ho capito quanto i sogni siano importanti. La purezza delle loro aspirazioni mi ha ricordato il valore dei sogni, anche nella mia vita.

Ho anche riscoperto la bellezza di cose semplici, come condividere un pasto. Anche se non mi veniva imposto, spesso alle 5.45, mi svegliavo per fare la corvée con alcuni di loro. In silenzio, ci raccoglievamo attorno al fuoco ad aspettare che l’acqua bollisse, pronti a preparare la colazione. Era un momento di semplicità assoluta, ma c’era qualcosa di straordinario nel dividere con loro patate  dolci e acqua calda con zucchero. In quei momenti, ho riscoperto l’importanza della condivisione, di vivere insieme.

Non posso poi non menzionare il sorriso con lo sconosciuto. In Madagascar, ogni persona che incontravi ti regalava un sorriso spontaneo, vero che parla senza parole, che trasmette umanità.

Un sorriso che nasceva da un semplice incrocio di sguardi, da un momento di connessione silenziosa. Ho riscoperto il valore di quel sorriso e spero di imparare a farlo anch’io, qui, dove la vita spesso ci rende più chiusi e distanti e dove diciamocelo, dove se sorridi allo sconosciuto sembri un pò sfigato sfigato.

Oltre ai ragazzi, ho avuto la fortuna di fare volontariato con altre otto persone.

Persone completamente diverse da me, ma con le quali si è creata una sintonia inaspettata. Ci siamo messi in gioco insieme, in un paese che non conoscevamo, ma siamo riusciti a sostenerci, a ridere e a creare qualcosa di unico. La complicità che si è creata tra noi è stata una delle sorprese più belle di questa esperienza.

Un altro aspetto della vita in Madagascar che mi ha colpito profondamente è stato il ritmo lento, “mora mora”.

In un mondo in cui siamo abituati a correre, lì ho imparato l’importanza della lentezza. Prendere tempo per fare qualsiasi cosa, per raggiungere un luogo o semplicemente per vivere la quotidianità, mi ha insegnato a rivalutare il mio rapporto con il tempo. Non sono mancati i momenti difficili. La barriera linguistica è stata un ostacolo grande. Non parlavo né il francese né la loro lingua madre, e spesso mi trovavo a inventare un italo-francese strano, cercando di comunicare con il linguaggio del corpo. Ma in quel contesto, anche il contatto fisico sembrava complesso. I ragazzi erano adolescenti, pieni di energia, e io, giovane donna, mi sentivo a disagio a mostrare affetto, come un abbraccio, temendo di invadere i loro spazi. Ma alla fine, ciò che mi porterò per sempre nel cuore è l’abbraccio di Nirina l’ultimo giorno. In quel momento, mi sono lasciata andare, ho abbassato ogni barriera. Sentivo la sua anima pura in quell’abbraccio, un gesto che racchiudeva tutto ciò che avevamo vissuto insieme in quelle settimane.

Tutte queste esperienze mi hanno fatto riflettere su cosa sia davvero la vita. Su come va vissuta.  Non ho ancora una risposta precisa, ma so che quello che ho vissuto lì è stato vero.  È una vita fatta di emozioni pure, sincere alla riscoperta dei valori. una vita che voglio inseguire e portare con me, anche nel mio ritorno a casa, sempre alla ricerca del mio equilibrio, sul filo sospeso della vita.

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