di Simone Porciatti
Come si può raccontare una crescita? Questo per me non è stato un semplice viaggio, e neanche una vacanza, non so bene come descriverlo, l’unica sensazione che ho è che è stato talmente intenso e pieno di emozioni e sensazioni che mi sembra di aver viaggiato per molto più di un mese. Ogni giorno era un costante mettersi in gioco te e le tue carte, i tuoi dubbi e le tue sicurezze. Il gruppo è stato frutto di grandi riflessioni, e i ragazzi del posto sono stati spunto per andare avanti a mettersi in gioco nonostante le proprie difficoltà.
Di preciso non so bene cosa e come raccontare un’esperienza di questo tipo e tale incognita è uscita anche tra di noi volontari, La risposta però è stata semplice e uscì in un momento di parola dove, tutti insieme, ci dicemmo che se veramente questo viaggio ha cambiato e cambierà qualcosa in noi, ne parleremo molto di più con i nostri gesti, sguardi e modi di fare che con le nostre parole.
Naturalmente però se devo riportare cosa mi ha colpito di più in questo mese riporto sicuramente il rapporto con i ragazzi della comunità, i loro sguardi, la loro semplicità e i loro sorrisi. All’inizio erano curiosi e silenziosi, difatti quando eri accanto a loro non parlavano molto, mangiavano il loro piatto di riso e tu te ne stavi lì, con la voglia di presentarti ad ognuno di loro, ma non sapevi nemmeno una parola in malgascio. La voglia di conoscerli però era talmente forte che autonomamente decidevi di metterti in gioco.
Appena apro bocca però tutti tirano su lo sguardo e ti osservano.. chissà cosa sperano che tu dica.. con serenità alzi un dito e ti tocchi il petto dicendo: ”Simone, je suis Simone”, l’effetto ottenuto e duplice, alcuni ridono e altri ti guardano a bocca semi aperta, nel frattempo però dicono i loro nomi ma tu noti delle risate un pò troppo corpose e capisci che ti prendono in giro… stai al gioco e ripeti quello che ti dicono e via, i sorrisi toccano le orecchie e inizia lo scambio di parole, tu gli chiedi come si dice e loro te lo ripetono in malgascio e viceversa in italiano. Gli sguardi si illuminano e i sorrisi diventano sempre più sciolti, adesso ti chiamano per averti accanto a loro. I più piccoli ti abbracciano o ti prendono le mani, mentre i più grandi ti invitano a giocare a pallone o a basket.
In poco tempo si crea un rapporto particolare, non è amicizia, è diverso, non ci si racconta le storie della nostra vita, si pensa a vivere la quotidianità insieme, si comprende se uno è felice o triste dal suo sguardo, se ha voglia di scherzare o no, la lingua non serve per capirsi, anzi ha risparmiato molte parole inutili, siamo arrivati subito ai fatti, IO SONO QUELLO CHE FACCIO, non serviva neanche imparare il loro nome se qualcuno ti voleva si faceva capire o tu ti facevi capire, i nomi li ho imparati poi scherzando con loro.
E più stavo con loro e più avevo voglia di immergermi in questo mondo, imparare la loro lingua. E’ buffo… sono stato qui come educatore senza frontiere ed erano loro ad educare me…
Del resto dell’esperienza mi ha colpito molto un particolare, sembrava di avere a che fare con un bicchiere con dell’acqua dentro a volte lo vedevi come mezzo vuoto altre volte come mezzo pieno… Certo nessuno poteva dire cosa e come fare all’altro, ognuno aveva da imparare tanto da loro e viceversa… il silenzio e la loro pazienza facevano da maestri, avevamo più scelte: cogliere il positivo dell’esperienza e raccontarlo al mondo esterno, focalizzarsi sul negativo per provare a cambiarlo o raggruppare tutto insieme senza dover per forza riportarlo fuori, ma elaborarlo dentro per capire cosa c’è al di fuori del proprio naso senza però farlo scorrere via, tenendoselo stretto elaborando un senso critico non offensivo ma educativo e non per gli altri ma per se stesso.
In poche parole è stata un’esperienza formidabile, il gruppo, il posto e le varie difficoltà hanno saputo estrapolare dalla mia testa numerose riflessioni che non sono mai state ferme, ma che con il tempo si sono trasformate e ritrasformate più volte, e tutt’ora continuano a vagare nella mia testa senza cercare un chiodo fisso per stabilirsi una volta per tutte, ma cercando altre idee per altri confronti.
Talmente preso da questa esperienza che mi era balenata anche l’idea di rimanere di più, idea che però si è subito trasformata in un:” no dai me ne ritorno a casa, ho un pò di cose da fare”, ed è stato un discorso detto da un ragazzo di nome Mattiew che mi ha confermato la mia scelta, ed è proprio con questo discorso che voglio concludere.
Mattiew disse:
E’ stato molto bello stare con voi, questo mese è passato in fretta, entrambi abbiamo imparato tanto, e voi avete scoperto la nostra vita… fatta di persone che vanno e che vengono, e come voi siete arrivati da casa vostra adesso è l’ora che ci fate ritorno, il nostro non è un addio ma è un arrivederci, noi ci ricorderemo di voi e voi non dimenticatevi di noi e di quello che avete visto.
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