di Monica Cimbro

È ormai la sera del 2 settembre quando il volo atterra all’aeroporto di Antananarivo. Dopo 10 anni, finalmente sto tornando ad Ambalakilonga, un ritorno desiderato, in quella che è stata la casa delle mie prime esperienze di viaggio con Educatori senza frontiere. Non so bene cosa aspettarmi, e neppure so descrivere le emozioni che mi attraversano. Il viaggio sul piccolo bus, dalla capitale a Fianarantsoa, sembra sempre interminabile e ad ogni chilometro si riaccendono i ricordi.

Le strade forse in alcuni tratti sono migliorate, ma in altri rimangono sterrate e piene di buche che costringono a continui rallentamenti. Con gli occhi incollati al finestrino rivedo i paesaggi, quelli sì, sono rimasti gli stessi: le colline verdi, i campi di riso che si estendono a perdita d’occhio con la loro geometria, frutto del lavoro e della tecnica manuale dei contadini. Dopo quasi 15 ore, eccolo lì il cancello blu di Ambalakilonga che si apre.

La mattina seguente, quando il buio della notte, che è davvero molto buio perché ci troviamo in un quartiere distante dal centro della città, lascia spazio alle prime luci, mi affaccio sul grande terrazzo della casa. E dall’angolo mi metto ad osservare, con le voci dei ragazzi che fanno da sottofondo: c’è la loro casa in fondo a destra, la cappella e il salone dritto davanti a me, poi sempre sul lato destro la scuola materna, la scuola per educatori Human e la caffetteria, che vedo per la prima volta.

Anche il cortile esterno e il giardino sono rinnovati, con un bello spazio rotondo dove ci si può sedere a chiacchierare o a riposare. Luoghi che con il passare delle ore si animano di presenze e di vita, di fatiche quotidiane, di preoccupazioni e di piccoli e grandi dolori, ma anche di gioia e bellezza, soprattutto per coloro ai quali la bellezza è spesso negata. Con lo scorrere delle giornate mi rendo conto di quanto Ambalakilonga, che abbiamo sempre considerato l’avamposto educativo di Educatori Senza Frontiere, sia diventata un riferimento non solo per la popolazione del quartiere, ma per l’intera città.

“Se avete costruito castelli in aria,

il vostro lavoro non deve andare perduto; è lì che deve restare.

Ora costruiteci sotto le fondamenta”

(Henry David Thoureau, Vagabonding)

Tanti sono i volti e le storie che ogni giorno attraversano quel cancello: c’è chi esce e c’è chi entra, chi si ferma per qualche giorno, chi per mesi, chi per anni; c’è chi chiede aiuto e chi aiuto lo dà, ci sono i segni e la memoria di chi è passato e i sogni di chi deve ancora arrivare. C’è il sapore dell’avventura che ci fa andare e tornare, c’è la convinzione di poter cambiare il mondo se abbiamo il coraggio di cambiare noi stessi.

C’è il dono di poter vedere tutto con occhi diversi.

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