di Giulia Gili

Sono il tavolo di un carcere femminile di Fianarantsoa, in Madagascar. Ho ritrovato questa pagina di diario abbandonata su un tavolo,  penso che appartenga a Lucille, una ex detenuta, e mi è piaciuta così tanto che ho pensato valesse la pena leggervela.

“La mattinata è iniziata con lentezza, mi sono svegliata prima che la luce del sole entrasse dalle fessure della porta ed illuminasse il dormitorio. La luce di un’ennesima calda giornata.

Il brontolio del mio stomaco non voleva smettere, ed iniziavo a sentire caldo. Quando mi sono seduta, nel buio i miei occhi hanno distinto che anche Marie era già sveglia, e stava seduta a terra in un angolo, per allattare il piccolo Thomàs. Mi sono fatta spazio tra i corpi dormienti e i panni sporchi per raggiungerli e sedermi accanto a lei. Il piccolo è nato qualche mese fa, non ricordo più esattamente quando, perché i giorni ed i mesi passati in carcere sembra che non cambino mai, trascorrono lentamente e velocemente insieme. Uno strano destino, venire alla luce in una cella.

La vita di Thomàs è iniziata da prigioniero pur non avendo alcuna colpa… la sfida sarà essere luce e riuscire a vedere oltre queste mura.

Mentre sono qui a scrivere, realizzo che mi è rimasta pochissima manioca, anche se lo stomaco mi brontola ancora e non è facile ignorarlo…

Continuo la pagina del diario vicino al forno a legna, sono seduta all’ombra ed attendo che le pizzette cuociano perfettamente. Esce un buon profumino. Sono contenta che oggi toccasse al mio gruppo per lavorare con le volontarie: magari potrò guadagnare qualcosina per avere più manioca. Poco fa ci trovavamo attorno al tavolo ad impastare, formare delle palline e poi dare forma alle nostre pizzette, ed il mio sguardo scorreva tra le altre donne del gruppo, le guardavo e le riguardavo: non vedo spesso luccicare i loro occhi in quel modo, e nemmeno i miei.

Quando ho capito che era quel giorno della settimana non vedevo l’ora: ho sempre amato cucinare.

Mi piaceva inventare nuove ricette per mio marito e per i miei bambini, mescolando aromi o spezie, ed ho impresse nella memoria le espressioni stupite dei miei figli quando arrivavano a cena affamati dopo una lunga giornata. E pensare che sono finita qui per proteggerli…

Spesso mi domando come facciano le volontarie ad essere così sorridenti ed essere interessate a noi: ci chiedono sempre come stiamo, ci chiamano per nome, ci riconoscono, ci portano la loro spensieratezza. Al come stiamo rispondiamo sempre bene, ma del resto come si può rispondere? Però, grazie a loro mi ricordo che sono Lucille, che ho un’identità ed una storia, che non appartengo a questo luogo terribile. Non riesco a comprendere come possano essere contente di venire qui, ma riescono a trasmetterci serenità e voglia di condividere. E’ incredibile come riescano a riempire il silenzio di questo posto, che trasuda sofferenza. Come scelgono volontariamente di trascorrere del tempo con noi, tra queste quattro mura? Come mai si ricordano chi siamo, meglio di noi?

È un peccato che alcune di loro non parlino francese: vorrei conoscere ognuna delle loro storie.

Grazie a loro, per qualche ora possiamo condividere uno scopo comune e lavorare insieme, mettiamo le mani in pasta e creiamo qualcosa che piace a tutti e che a noi detenute è utile per la sopravvivenza. Non solo per gli Ariary, ma per il valore che ha per noi questo momento: è come se potessimo dare forma anche a noi stesse, ci rendiamo conto delle nostre potenzialità, si riaccende il fuoco che si era spento, e si aggiunge quello che mancava.

E sono certa, perché lo vedo nelle mie compagne, che non sono l’unica a sentirmi finalmente viva, e di nuovo una persona, riscopro Lucille quando ci ritroviamo tutte insieme attorno a quel tavolo.

Ci ricordiamo che siamo capaci, utili, che sappiamo fare qualcosa di bello e di buono.

Sabine, Taina, Jeanne e Fara propongono i loro prodotti: cesti intrecciati, borsette di rafia, anelli e bracciali in ferro battuto; mi chiedo spesso se le volontarie li acquistino per aiutarle o perché gli piacciono veramente.

Sono donne come noi, ma è tangibile che nel paese da cui provengono hanno delle libertà e dei diritti che noi non immaginiamo nemmeno. Per me è incredibile pensare che, nonostante questo, vengano volontariamente qui a cucinare con noi. Sono un’opportunità.

È fine giornata e mi sento particolarmente strana. È una sensazione che non provavo da molto tempo. È come se fossi… felice? Stamattina non solo abbiamo fatto delle pizzette, ma ci hanno anche insegnato una nuova ricetta, per cucinare delle madeleine. È stato bello farlo con le mie compagne, è soddisfacente cucinare e cucinare insieme.

Mi ricorda che anche io sono capace e posso ancora imparare qualcosa di nuovo. Il mondo va avanti, e posso andare avanti anche io.

Su quel tavolo non rimangono solamente i ricordi di aver condiviso un momento insieme, o delle tracce di pomodoro e farina da pulire, ma un ingrediente fondamentale alla sopravvivenza, che tra queste mura polverose e questi dormitori affollati facciamo fatica a reperire: un chilo di speranza.”

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