di Gabriele Ravara

Abbiamo camminato nel mondo di Ambalakilonga, struttura che accoglie e abitata da trentaquattro ragazzi, una scuola materna e un corso per diventare educatori.

È casa di tante persone che hanno avuto o hanno bisogno di sostare e sentirsi amati.

Ambalakilonga è stato il nostro marciapiede, perché ha permesso di camminare con sicurezza, con ordine e con rispetto nella strada che ognuno degli abitanti  percorre. 

È una realtà che parla di speranza, che silenziosamente costruisce e che tende la mano verso chi quella speranza fatica a trovarla.

Abbiamo masticato ogni giorno cosa vuol dire essere fraternità, sentirsi fratelli e sorelle, non di pancia ma di cuore.

Abbiamo avuto l’opportunità di condividere un piccolo tratto della strada dei ragazzi che vivono nella comunità, conoscendo i loro occhi, le loro emozioni e la loro voce.

Siamo in cappella, i ragazzi ci guardano con stupore e curiosità, ancora non ci siamo detti una parola.

Cala il silenzio… un ragazzo intona una parola a me estranea, che però mi ricorda inconsapevolmente qualcosa: PADRE.

Si ferma, sospira, chiude gli occhi e la intona.

Lo fa con la voce che si spezza a metà,  con paura e vergogna.

Mi viene da pensare che forse è una parola tanto importante quanto sconosciuta.

Padre, dove sei?

Poi penso, forse, in quel momento, che il Padre è di tutti, è nostro.

Il ragazzo  è imbarazzato per la sua voce, ma dopo  pochi secondi gli altri ragazzi lo supportano e cantano con lui.

Si alza in cielo un coro, una voce unica che chiama il Padre.

Ci facciamo sentire, in un fazzoletto di terra nascosta tra il Madagascar, trentaquattro ragazzi più noi volontari, cantiamo al Signore.

Un canto di libertà, un canto che ci chiede di perdonare i peccati ma che nel frattempo ci insegna ad amare.

Amare ogni ragazzo senza limiti, senza bordi.

Umanità.

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