di Laura D’Addario

Le lancette segnano le 18:00, ma a Santa Cruz quel tempo non è ancora arrivato. La sensazione di smarrimento misto a scoperta sfugge alle parole; queste, nel tentativo di tradursi, sembrano svuotarsi di significato.

La prima tappa non è un inizio, ma un ritorno: il tempo che lasciamo e quello che viviamo si intrecciano, creando un paradosso che dà avvio al nostro viaggio.

Ogni luogo incontrato, ogni volto sfiorato, rimandano a un passato già vissuto. Nulla di lineare attraversa il nostro cammino: ogni passo ci conduce avanti, eppure sentiamo di essere già stati lì. L’apparenza illusoria di continuità si dissolve. Non è più una sequenza ordinata di istanti, ma un cerchio che si chiude su sé stesso, sfuggente e sfalsato.

Il nostro è un palcoscenico allestito con gli stessi oggetti: gli stessi sorrisi, le stesse parole, come se fossimo attori di una rappresentazione già scritta. Eppure, c’è sempre un particolare che cambia, un dettaglio che prima ci era sfuggito e che ora si rivela tra le pieghe dell’abitudine.

Questo scorrere ci gioca contro e a favore; non è più qualcosa da controllare, ma una presenza viva e mutevole. Non lo misuriamo più in ore o giorni, ma in attimi di comprensione. In questa danza di cambiamenti e ritorni, alcune quantità rimangono impossibili da misurare e alcune superficialità si rivelano necessarie.

La valigia, mappa del nostro ingegno e immagine di un caos inevitabile, si richiude all’ultima tappa, dove torniamo al punto di partenza, come se tutto si fosse annullato per poi ricomporsi in un’unica ciclicità.

Le lancette segnano le 12, e a Milano quel tempo è passato. Nel silenzio che segue, oltrepassiamo il confine tra ciò che è stato detto e ciò che resta taciuto, quel che resta indefinito ma che, attraverso parole o gesti, si trasforma in una nuova forma di presenza. Così, il viaggio nel viaggio è compiuto.

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