di Marleyn Alfonsi

A che ritmo batte il cuore al ritorno da Huambo?

Al ritmo di passi lenti, preferibilmente scalzi.

Ritorno.

… Occhiaie, sonno, viaggio infinito, cuore in subbuglio, nostalgia, speranza, riflessioni, atterraggio, accento romano all’aeroporto, l’abbraccio di mio padre.  Il viaggio da Fiumicino a casa è stato denso di emozioni, di occhi fuori dal finestrino per rivedere alcuni segnali stradali famigliari in direzione della strada di casa. La voce del navigatore, il vento dal finestrino.  Dal finestrino non c’è più il colore della terra rossa, i baobab, le case piccole e fatte di pietra. Scorrono veloci, palazzi, nomi di industrie, strade, asfalto, lampioni. Sono a casa, nonostante la stanchezza, corro le scale del palazzo di casa, poso la valigia, abbandono lo zaino a terra, metto il pigiama e provo a dormire.

5.30 del mattino. Non riesco a prendere sonno, una quantità infinita di emozioni mi tengono gli occhi aperti. Come si possono contenere una quantità infinita di emozioni?  Come si fa a placare il rumore che producono? Le emozioni quelle vere forse proprio perché vengono dalla pancia non sono contenibili e meritano di essere sprigionate in tutta la loro potenza e forse l’unico modo è scriverle per cercare di canalizzarle nella giusta direzione.

Sono qui appoggiata alla ringhiera del terrazzo, i piedi scalzi, in pigiama osservo il cielo di Roma, le case, mi prendo il saluto e il Bentornata della vicina Teresa che stende i panni con il fresco, con i bigodini in testa ed il vestito sgualcito dal riposo notturno.

Osservo tutto e tutto sembra apparire diverso e ciò che prima era abitudine lo osservo con altri occhi.

Ma è proprio in questo silenzio, dopo il ritorno da un’esperienza così significativa per me, che tutto si fa chiaro, in questo silenzio mi concedo la possibilità di riordinare le tante emozioni che questa notte mi impediscono di dormire.

Osservo la valigia, appoggiata qualche ore prima a terra, sul pavimento della sala, è semiaperta, lì, a terra.

Quanto tempo impiegherò a disfare la valigia?

Cercherò in qualche tasca dei pantaloni un po’ di Africa?

Troverò in qualche tasca le perline dei bracciali che abbiamo fatto, fra le tante attività svolte, con i ragazzi del centro?

Ci saranno dei granelli di terra rossa sotto le scarpe?

Dalla tasca destra dello zaino abbandonato qualche ora prima sul pavimento della sala, accanto al tavolo è caduta una foto, la prendo, la osservo, è la foto di uno dei ragazzi del  Centro Acolhimento Crianca Feliz che la tutor, l’ultima sera dedicata alla parola mi ha consegnato in una busta insieme ad una lettera. Quella sera tutte noi abbiamo ricevuto una lettera e una piccola foto formato polaroid.  La osservo, nel silenzio di questa notte rifletto, quante domande taciute conservo di quella giornata, dello scatto della foto e di tante altre. Anche se ormai lontana e a chilometri di distanza, sento il bisogno di scrivere un pensiero:

“Quanta strada hanno percorso i tuoi piedi scalzi?

 Ti fanno male?

Tu che percorri questa strada senza alcun punto di domanda e vai sicuro di te.

 Quanta storia potrebbero raccontare i tuoi vestiti e i tuoi occhi. Io sono qui ti osservo e resto in un groviglio di domande. Vorrei dirti che i tuoi piedi così piccoli lasciano impronte grandi tu non te ne accorgi perché non sai voltarti indietro o forse non vuoi per non vedere la strada che hai lasciato alle spalle. Vorrei dirti che per quanto doloroso possa essere voltarti ti ha reso cio che sei ora, ti aiuta a capire da dove sei partito e dove sei giunto ora, Vorrei dirti che hai fatto progressi (pur non conoscendoti da anni) perché ciascuno di noi ha bisogno di parole gentili per procedere nel cammino.

Te ne hanno mai dette a te?

Che percezione hai di te?

Lo sai come è il profumo di una carezza  ne hai mai ricevuta una?

Conosci il calore di una mano che ti protegga in cui possa sentirti al sicuro, a casa?

Ma tu una casa ce l’hai o hai fatto della strada la tua casa?”

Credo ci sia un tempo per tutto.

Oggi è il tempo per accogliere e fare spazio nel cuore a tutto quello che questo viaggio mi ha donato, per continuare a farmi avvolgere dalla meraviglia, dallo stupore. E’ il tempo in cui avere domande a cui non debba seguire per forza una risposta. Accettare il viaggio, ed esserci davvero all’interno. E’ il tempo per avere occhi predisposti alla bellezza, il tempo per lasciare andare ciò che è superfluo, superficiale e non affine alle nostre profondità interiori. E’ il tempo di preservare il valore che hanno avuto le compagne di viaggio che mi hanno accompagnata per le strade dell’Angola, Francesca, Elenia e Camilla.

Credo ci sia un tempo per tutto. Questo per me è il tempo della gratitudine. Fermarmi avere il coraggio di dire grazie e conservare del viaggio, l’essenza stessa, l’evoluzione, la crescita, la condivisione, i sorrisi dei ragazzi del centro, le attività svolte, i momenti di fragilità gli stessi che mi hanno permesso di scoprire anche quanta forza possano nascondere all’interno.

E’ il tempo di essere sotto il cielo di Roma con il corpo e con la mente a Huambo, di prendermi tutto il tempo di cui necessito per interiorizzare tutto ciò che ho vissuto.  Ho il cuore diviso a metà, rifletto a quanto sia difficile partire e tornare, quanto sia difficile lasciare un paese, la mia casa i miei affetti e andare in un altro paese ed avere la stessa difficoltà al ritorno nel salutare persone che in poco tempo hanno donato tanto, nella partenza e nel ritorno esistono emozioni contrastanti e simili.

Niccolò Fabi nel testo della canzone dal titolo “Costruire” scrive:

“Ma tra la partenza e il traguardo

Nel mezzo c’è tutto il resto

E tutto il resto è giorno dopo giorno

E giorno dopo giorno è silenziosamente costruire

Costruire è sapere rinunciare alla perfezione”

Percepisco che abbiamo silenziosamente costruito, rinunciando alla perfezione, tutto ciò che è accaduto in questo viaggio è stato autentico, vero, doloroso, bello stravolgente, delicato, amaro. Non è il nostro ego, nemmeno quante volte il nostro nome viene pronunciato. Ciò che conta è la nostra etica, il nostro essere stati corretti e rispettosi in terra straniera. Sono i piccoli cambiamenti apportati silenziosamente e correttamente nel cuore delle persone incontrate. A noi rimane l’umiltà di fare e donare secondo un comportamento che porti aggiunta e non squilibrio. Che porti qualche ricordo ma anche sostanza. E di sostanza ne ha portata tanta in me. Porto le immagini che ho scattato con gli occhi, porto la felicità e la crudeltà dei posti dove i miei piedi hanno camminato. Porto gli occhi degli sconosciuti che mi hanno preso per mano senza pretendere, conservo sapori, odori, parole, sorrisi. Prima della partenza avevo timore per la scarsa conoscenza della lingua portoghese, per l’impossibilità di comunicare con i ragazzi, è stato un ostacolo per me, ma una volontaria esf mi rassicurò dicendomi “non ti preoccupare parla la lingua del cuore e loro ti comprenderanno”. Oggi della lingua del cuore di cui mi accennava ne ho compreso il significato profondo. 

Un viaggio ha un inizio e una fine?

Non lo so, certamente ha un inizio, ricordo l’inizio del viaggio verso questa terra, gli occhi lucidi, il cuore in gola, l’ho immaginata, disegnata, ho atteso di vederla come quando un bambino attende impaziente di fare al bagno ed è sul pieno della digestione.   Ora che l’ho vista, ne ho percorso le strade, ora che ho fatto ritorno ho gli occhi ancora più lucidi della partenza ma con il cuore grato e colmo di esperienza.  Sulla fine del viaggio non so, credo non ci sia, siamo noi a definirla, a volte può continuare oltre la data del biglietto aereo e l’atterraggio a casa. 

Ora è il tempo di SO-STARE, respirare, proseguire a passi lenti, a ritmo del cuore. A che ritmo batte il cuore al ritorno da Huambo? Al ritmo di passi lenti, preferibilmente scalzi.

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