Scritto da Chiara Farmehini
Luanda, 10 agosto 2022
È rimasta solo un’ora prima di ripartire per l’Italia. Mi siedo nel portico davanti casa per riordinare un po’ i pensieri. Il vento muove le foglie degli alberi. Mi fermo ad ascoltarlo, ho sempre adorato questo fruscio delicato. In lontananza, sento anche i rumori della strada principale, sulla quale ogni giorno sfrecciano un numero strabiliante di macchine, che si sfiorano continuamente senza mai toccarsi, come in una danza dai ritmi imprevedibili.
Sento anche i clacson dei tanti taxi collettivi bianchi e blu, che mangiano l’asfalto sporco di sabbia. O è la sabbia sporca di asfalto? Non lo so. I rumori del traffico mi ricordano i primi giorni di viaggio, mi riportano alla confusione dell’inizio di questa avventura.
È stato davvero difficile per me lasciarmi trasportare da questi ritmi così diversi, a volte –per me- tremendamente lenti, a volte frenetici.
È stato difficile perché non riuscivo a prevederne l’alternanza, a capirne il senso.
Come può una sola città ospitare così tante contraddizioni? Lo sono davvero, contraddizioni? Io le ho percepite cosi. Che confusione. Nella mia testa cercavo di dare un senso a quello che osservavo, case di sabbia e lamiera e centri commerciali con vestiti di diamanti. Cercavo un pattern nascosto tra le righe, nascosto tra le abitudini delle persone che incontravo. Cercavo, cercavo e non trovavo.
Mi sentivo frastornata, profondamente confusa, fragile. Quello non era ciò che mi aspettavo. L’Angola sembrava contenere tutta la complessità della realtà e anche qualcosa in più, di indecifrabile. Le mie certezze velocemente sbiadivano. “Prova a cambiare punto di vista e vedi cosa succede”, mi ha suggerito, durante un momento di parola, una compagna di viaggio. “Ci provo”, mi sono sentita rispondere.
Ho deciso di fidarmi, di buttarmi in un mare di incertezze e lasciarmi trasportare dalla corrente, facendo lo sforzo di interrompere quella continua ricerca di risposte. Ho avuto paura del buio, inquietudine per l’ignoto. Ho avuto una profonda ansia di non riuscire più a toccare terra. Ho chiuso gli occhi, ho lasciato andare quel peso che sentivo sul cuore. Un giorno, all’improvviso, mi sono ritrovata con i piedi sporchi di una meravigliosa terra rossa. Terra angolana. Nella ricerca del senso delle cose, ero io ad essermi persa.
Mi sono trovata negli occhi dei ragazzi del centro di accoglienza di Huambo, nei sorrisi, a volte imbarazzati, dei grandi e nel bisogno di carezze dei più piccoli. Mi sono trovata giocando con loro con una palla e un canestro. Mi sono trovata camminando per strada al loro fianco. Mi sono trovata nella semplice presenza, che non aveva bisogno di parole, ma solo di un cuore che sapesse accogliere e accogliersi. Mi sono trovata nel forte desiderio di continuare a dedicare la mia vita all’educazione, alla relazione con l’altro.
Questo viaggio ha sollevato davvero tante domande e la maggior parte di esse rimarranno senza risposta. Eppure, adesso, sono in pace. Mentre guardo l’ultimo sole angolano tramontare, mi rendo conto che qui a Luanda c’è qualcosa di impercettibile e allo stesso tempo denso, che dà senso a tutte le cose, anche alle contraddizioni. È una cosa che non riesco a spiegare. È la confusão di Luanda, è il ritmo della confusione.
Grazie Luanda per avermi fatto perdere. Grazie compagne, per aver camminato insieme a me. Ora so che, solo perdendoci, rischiamo di ritrovarci.
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