Di Marta Meroni

Il mio viaggio è cominciato con una parola: essenzialità. 
Le parole di chi ci ha accompagnato in questa carovana risaltano al fondo di una breve lista:

Prepareremo il tutto imponendoci di far stare tutto in un solo borsone, non esageratamente grande… Sarà il nostro primo esercizio di essenzialità”.

Guardo il mio zaino pieno e sento che avrei potuto svolgere meglio questo compito iniziale.

Decido di non pensarci, chiudo lo zaino, allaccio le scarpe e parto.

La parola essenzialità mi accompagna, passo dopo passo, attraverso i sentieri che dall’Emilia ci portano in Liguria. Mi accompagna mentre mi tuffo insieme ai ragazzi nelle fredde acque ai piedi dei sassi neri, mentre il vento ci scalfisce le ossa scalando il monte Penna e quando troviamo ristoro attorno ai due tavoli da campeggio, gli uni accanto agli altri.

La parola essenzialità risuona poi più forte una volta tornata a casa.
Qualche anno fa il bisogno di essenzialità mi ha portato ad attraversare il Centro America per trovare il tempo e lo spazio necessario per lasciare da parte ciò che era superfluo, per potermi immergere in ciò che ritenevo veramente profondo.

Avevo bisogno di partire per capire e di tornare poi, per cambiare. Ora sono qui, dopo una settimana di carovana, e mi rendo conto che questa volta non ero ancora pronta per tornare. La parola essenzialità mi ha invaso a tal punto che il ritorno alla vita quotidiana mi ha lasciato più sgomenta del previsto.

Questa volta sono partita senza nessuno scopo maggiore, senza nessun bisogno di sistemare i miei pensieri. Volevo vivere un viaggio ESF e, forse, volevo cominciare a restituire un piccolo pezzettino rispetto a quanto mi è stato dato in questi anni.
Eppure, proprio nel momento in cui ho creduto di non aver bisogno di nulla, mi sono ritrovata ad aver afferrato questa essenzialità e ad essermici aggrappata con tutte le mie forze.

Il ritorno alla quotidianità fa sorgere in me un senso di angoscia, se così si può chiamare, e frustrazione, mischiato al desiderio bruciante di dover vivere una vita nel modo che ritengo più corretto.

Chi mi circonda? Come vive la gente intorno a me? Cosa faccio io ogni giorno in questo mondo? Come lo faccio?

Tornare alla quotidianità mi impone di non poter mettere da parte l’essenzialità che ha nutrito la mia anima durante la carovana.

Sono consapevole che sarà una sfida perenne con me stessa e il mondo, consapevole che potrò e dovrò essere presenza scomoda laddove il superfluo è diventato necessario, ovvero in tutto ciò che praticamente mi circonda.

Potrei rinunciarci forse, questa sfida richiede di essere affrontata con determinazione, costanza, perseveranza e presenza.

Potrei rinunciarci, girare il volto dall’altra parte e vivere una vita come tante, una vita come le altre.
Ma è proprio qui, e lo comprendo oggi, che risiede la distanza che divide il mio essere un’educatrice senza frontiere da chi non lo è: il mio
 voler essere presenza autentica nel mondo, per quanto scomoda possa essere, il non dare e il non lasciare nulla per scontato, il non voltarsi dall’altra parte e tendere la mano.

Mettendoci la faccia sempre, essendo coerente sempre, senza nascondermi.

Rileggo le mie parole e il rischio forse è quello di peccare di presuntuosità: mi scuso se a trasparire sia questa sfumatura. Ciò che vorrei emergesse è che io, in quanto educatrice senza frontiere, non posso fare finta di nulla ma devo e voglio essere parte di quello in cui credo e che ritengo necessario e fondamentale.

Devo e voglio  vivere cercando di tenere sempre presente che le uniche cose veramente fondamentali sono quelle essenziali perché credo fermamente che solo nell’essenziale possiamo cercare e trovare il vero nutrimento per il nostro spirito.

 

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