di Gabriella Ballarini
Vorrei raccontarvi una storia.
Credo che le storie in questo momento ci servano per comprendere il presente, per ridimensionare l’angoscia, per riordinare alcuni tratti di disperazione, per concedersi un po’ di felicità e pure per sentirsi interi e non frammentati, persi, soli e pure un po’ stanchi.
La storia parte dall’impossibilità di partire, da un vincolo grande come l’immobilità e si sviluppa in un viaggio di tre mesi che ogni settimana mi vede in video lezione con i professori che da 7 anni seguo in Bolivia e nemmeno una Bolivia qualunque, si tratta della Bolivia Amazzonica, un angolo di mondo di cui poco si parla, un angolo di mondo in cui la scuola, ad esempio, non riaprirà per almeno 6 mesi (ndr. hanno chiuso a Marzo 2020).
200 professori, 29 incontri, 80 ore di formazione.
Cosa c’entra una storia con questi numeri?
I numeri sono la storia.
I numeri sono la possibilità di questa storia.
E le parole sono lo sviluppo, di questa storia.
Apro il quaderno e rileggo gli appunti, le voci che mi sono arrivate dentro gli auricolari:
“Non pensavo che avrebbe funzionato.”
“Sono felice che la professoressa che si collega dall’Italia, in questi mesi, ci abbia permesso di sentirci vicini.”
“Questi incontri mi stanno dando una speranza, in questa situazione critica.”
“Ho paura di perdere tutto.”
“In questi mesi ho imparato a vivere più profondamente il mio matrimonio.”
“Finalmente ho potuto conoscere il mio collega che lavora a scuola con me da due anni, ma con cui non avevo mai avuto occasione di scambiare opinioni.”
“Questa pandemia ci ha imprigionati, ma la formazione di questi mesi ci ha liberati, anche solo per un attimo.”
“Quello che ho capito da questi incontri, è che io sono un’insegnante, ma prima di tutto sono una donna, un essere umano, e devo prendermi cura di me per potermi prendere cura degli altri.”
“Non mi fidavo di questa formazione, ma forse è perché abbiamo paura delle cose nuove che non sappiamo governare.”
Abbiamo pianto, riso, cercato di imparare ad aprire e chiudere il microfono, abbiamo aperto e chiuso stanze virtuali, ci siamo incontrati in tanti e confidati in due, abbiamo disegnato, fotografato case, scritto pagine e pagine di storie, ma più di ogni altra cosa: ci siamo incontrati.
E questi viaggi in Educatori senza Frontiere si sono moltiplicati, per un mese siamo stati ogni giorno in Brasile 13 incontri, 30 ore di formazione, 100 persone raggiunte. Per due mesi siamo stati in Honduras con 10 Challenge con i ragazzi della nostra Casa Juan Pablo II.
Abbiamo fatto vivere il viaggio, nel pieno delle sue possibilità.
Il viaggio è solo il biglietto aereo, l’acqua che non esce dal rubinetto, la profilassi anti-malarica, il piatto tipico del posto? La risposta, se guardiamo il viaggio dal punto di vista del progetto educativo e formativo che lo sostiene, è no.
Il viaggio è l’incontro rivoluzionario tra noi e le persone che partecipano insieme a noi al processo.
Il viaggio è il ribaltamento del punto di vista e la costruzione dell’aula.
Se l’aula è dentro al computer, il viaggio comunque non si ferma.
E non è un discorso retorico, è aderenza al tempo presente.
È il piano di realtà sul quale l’educatrice e l’educatore devono costruire la loro pratica, i loro progetti.
Perché la formazione non si deve fermare?
Perché siamo educatrici, educatori, siamo noi che non dobbiamo mollare in questo momento.
Adesso è il momento di formarsi, di interrogarsi, di farlo in gruppo, poco importa se sarà un po’ in presenza e un po’ a distanza, dobbiamo continuare ad incontrarci, a metterci in crisi.
In questa situazione di totale disorientamento la bussola siamo noi, noi insegnanti, noi assistenti sociali, noi psicologi, noi mamme e papà, siamo noi, siamo le persone deputate alla cura, all’accompagnamento e alla crescita dei giovani, dei piccoli, degli adulti in difficoltà.
E allora non fermiamola la formazione.
Non facciamoci spaventare dal fatto che forse per qualche incontro saremo su Zoom.
Non tiriamoci indietro.
Sul piano pratico non abbiamo certezze, questa è l’unica certezza, cambieremo piani a cadenza settimanale, ma non deve spaventarci, abbiamo il dovere di non spaventarci.
Dobbiamo reagire creativamente, guardare il mondo seduti sulla nostra valigia degli attrezzi, pronti ad aprirla e ad organizzare una nuova rigenerazione.
Così si chiama la nostra formazione quest’anno: RIGENERAZIONI.
La copertina è un fiore colorato a metà.
Abbiamo bisogno di alimentare il nostro movimento di rivoluzionari gentili, che vogliono cambiare il mondo mettendosi insieme, raccontandosi le loro storie, chiedendosi: come stai? E dandosi il tempo (tutto il tempo) di ascoltare la risposta.
Ritorneremo a viaggiare.
Ma, proprio ora, non è tempo di fermarsi.
Qualche tempo fa ci dicevamo che l’educazione fa rumore e in un passaggio, nel 2016, scrivevo così (scusate l’auto-cit.)
“Vorrei, che in questo giorno, disarmassimo le nostre ali, ci convincessimo a cedere all’umano, ci spingessimo a non confondere lo zaino con la zavorra e finalmente vivessimo la libertà, che no, non è star sopra un albero, è star dentro di noi, alzando lo sguardo, per vedere attorno e accogliere la vita intera, non solo un pezzo, non solo un antipasto, la vita intera.”
Continuiamo a far rumore.
È la nostra unica possibilità.
La nostra rivoluzione gentile.
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