Riportiamo di seguito una lettera di Rosario Volpi (responsabile della comunità Ambalakilonga in Madagascar), che racconta a Cristina Mazza (Responsabile ESF) la situazione in cui sta vivendo e osservando dal suo avamposto rispetto al coronavirus, arrivato purtroppo anche nell’isola.
Cara Cristina,
Questo mese stiamo riflettendo su un tema che mi sembra cruciale in questo periodo: Toccare la vita.
Toccare la vita… in un momento in cui sembra piuttosto di toccare la morte? Mi sono segnato una frase del don, dalla messa di domenica scorsa: “dobbiamo cominciare a leggere la vita in modo diverso”, e forse iniziare a fare i conti anche con la morte come categoria, come pensiero, con la morte delle persone, anche quelle vicine, ma anche con le piccoli grandi morti delle nostre più ferree certezze. Ma con quale atteggiamento? Per ora l’appunto qui questa domanda.
E’ strana questa Ambalakilonga chiusa, noi che solitamente non abbiamo neppure una chiave per chiudere il cancello, perché sia chiaro che la nostra porta è sempre aperta. Eppure intravedo tanto bene in questa chiusura forzata, come il poter dedicare più tempo ai ragazzi, anche e soprattutto quelli che normalmente sfuggono lo sguardo e se ne stanno più in disparte. O la decisione dei nostri educatori di trasferirsi qui con le loro famiglie per condividere con noi anche l’isolamento. O, infine, come tempo regalato per provare a riposare, la mente soprattutto, dopo mesi frenetici.
Me lo sono ripetuto spesso in questi ultimi giorni, noi siamo dei privilegiati qui. Siamo in periferia, in campagna, in un isolamento che in questo momento risulta essere positivo. Dentro queste mura si apre un grande spazio in cui possiamo fare mille cose insieme ma anche cercare lo spazio per noi stessi. Qui abbiamo cibo e medicine, internet e la TV, possiamo fare musica o sport, piccoli lavori o studiare… non abbiamo acqua, anzi ce n’è pochissimissima, ma nessun isterismo per questo, si fa come si può e così ci laviamo le mani da un bidone riempito, forato e tappato con un chiodo. Quando serve, si leva il chiodo e ci si lava con quello spruzzo d’acqua che esce.
Penso però alla gente qui fuori, che forse dovrà scegliere se morire di coronavirus o di fame…
Penso alle loro case. Case? A quello spazio ristretto dove vivono in tanti e senza nessun minimo confort.
Niente libri. Niente televisione. Niente internet. Nessuno svago. Ma neanche una camera ciascuno, o un letto a testa e perfino un divano! Non è un pensiero per rimproverare le nostre coscienze, ma per interrogarle si! Per tutto quello di cui sopra, non ce n’è lo spazio e neanche le possibilità, perché tutto quello che si guadagna basta a malapena per mangiare oggi, quando basta.
Penso alle mascherine che da un giorno all’altro sono passate da un costo di 700 ar (17 centesimi di euro) a 9000 ar (2.19 euro).
E poi penso alla nostra gente, in Italia, che fa fatica a restare a casa! Cerco di comprendere, ma fatico a sorbirmi le lamentele.
Penso a tutte quelle persone, anche amici a me cari, che con martellante insistenza: “voi non vi rendete conto li”, “voi non potete capire cosa succede qui”, “voi state sottovalutando” e via così, e mi chiedo dov’erano con le loro preoccupazioni quando qui infuriava la peste polmonare, quando qui sono morte più di mille persone per il m o r b i l l o (?!?!?!?), quando qui ti muore tra le braccia un ragazzo con la tubercolosi, quando ti trovi davanti a malattie a cui nessuno sa dare un nome… quando qui si continua a morire di lebbra, o anche semplicemente per una dissenteria. Dov’erano? A vivere tranquillamente la loro vita, a lamentarsi del niente o dell’invasione dei migranti, perché la verità è che niente e nessuno deve scalfire o mettere in dubbio il nostro tenore di vita. Ancora una volta, si tratta di questo, di porte chiuse o aperte. Di menti e cuori, chiusi o aperti.
Sì credo che la cosa che mi ha ferito di più in questi mesi, è vedere la reazione illogica e la perdita della lucidità anche di persone che consideravo rocce, “solo” adesso che l’insicurezza viene a bussare alla nostra porta. Finché tutto è lontano, finché non mi tocca è facile parlare, è facile persino essere solidale… di quell’aiuto dato con la punta delle mani ma che non arriva a toccare il cuore.
Penso anche a quelli che dicono “che ci stai a fare li? Non sei né un medico né un infermiere, non sei utile a nessuno!”, già, utile non utile, su questo si basa la vita?? A pensarci bene si, visto che ci si serve delle persone come delle cose, sei utile ti tengo stretto, non sei utile ti getto. E io invece voglio dire un secco NO, oltre la categoria dell’utilità c’è quella della condivisione, perché se anche non posso fare niente (e non è assolutamente vero) posso però provare a condividere la vita di questi nostri amici malgasci, nella gioia e nel dolore, quando le cose vanno più o meno bene, e quando, soprattutto quando, vanno male. Dovrei avere paura di morire? Disprezzo la vita? No, con Enzo Bianchi io penso che “solo chi ha un motivo per cui morire, ha anche motivazioni per vivere!”.
Penso anche a tutti quei miei fratelli e sorelle nella fede, che non sanno approfittare di questo tempo e piagnucolano dietro il portone chiuso di una chiesa, o perché non hanno la messa per un periodo limitato. Eppure si poteva e si potrebbe approfittare di questo tempo per alzare lo sguardo insieme, per tenersi la mano e piangere insieme, non è preghiera questa??? Penso al don che con un cero, un pezzo di pane e un po’ di vino, con la Parola, celebra la cena alla tavola dell’amicizia, e della fraternità. Con tutti, nessuno escluso, insegnandoci cosa vuol dire amare e perdonare, coi fatti.
Torno alla domanda iniziale: “con quale atteggiamento?”, come fare a leggere la vita diversamente in questo periodo fortemente segnato dall’angoscia e dalla morte? Con la categoria della resurrezione, “ogni mattina è una resurrezione” ha detto don Antonio domenica scorsa. Credo che sia una categoria che vada oltre il credere o il non credere, perché già la natura è fatta così, basta non fermarsi al seme “morto” ma saper aspettare un nuovo germoglio. Noi sappiamo aspettare?
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