di Fanny Berti
Quando sono arrivata a Huambo e ancora non conoscevo i bambini e i ragazzi del Centro di Accoglienza Crianças feliz, una mattina mi sono messa ad osservarli giocare a palla. Il sole dell’Angola splendeva alto nel cielo, mentre io mi sentivo spaesata. Un ragazzo si è avvicinato a me e abbiamo iniziato a parlare. Io non sapevo dire niente in portoghese, lui conosceva solo qualche parola di italiano. Così, tra le similitudini delle due lingue neolatine e tanta pazienza ci siamo saputi ascoltare. Lui si chiama M. e mi ha insegnato a presentarmi in portoghese, a saper dire come mi chiamo, quanti anni ho e da dove vengo. Io a tratti mi innervosivo perché non riuscivo ad esprimermi come avrei voluto e lanciavo dei sassi, questo lo faceva ridere, mentre continuava a spiegarmi le cose con molta calma.
Nel pomeriggio l’ho visto con un quaderno in mano, così gli ho chiesto che cosa facesse. Mi ha risposto che stava studiando perché gli piace molto e che quello era il suo quaderno di grammatica portoghese. Ho sfogliato il suo quaderno, aveva la copertina rotta e dietro la cartina dell’Angola, che abbiamo osservato insieme. M. ha 17 anni, vive in una comunità dove le condizioni di povertà dei bambini e ragazzi come lui sono una dura realtà. A volte avrei voluto chiudere gli occhi perché tutto quello che vedevo mi faceva male, altre volte non avrei voluto chiuderli neanche per dormire, per non perdermi niente di quel luogo. Perché qui non si vede solo la dura realtà, si vede anche tanta bellezza.
Huambo, così come tutta la nazione, ha subito conseguenze devastanti dopo la guerra civile, finita solo nel 2002. Ancora ci sono bambini e ragazzi che vengono dalla strada, soli, abbandonati a se stessi e a un paese che fa fatica a rialzarsi e a prendersi cura di loro.
M. mi ha raccontato che vuole diventare un medico e che gli piacerebbe studiare in Canada. Gli ho chiesto il perché e ci ho messo un po’ a capirlo, poi gli ho detto che sarebbe bellissimo se diventasse un medico qui in Angola, perché è un paese che ne ha bisogno. M. infatti, vorrebbe fare il medico proprio nel suo paese.
In quel momento ho percepito tutta la nostra diversità: il colore della pelle, la lingua, il continente, la cultura, la società, le condizioni di vita…
E proprio in quel momento, ho pensato che quello che ci rende liberi è sognare! Perché nessuna condizione lo può impedire. Non importa se si è ricchi o poveri, bianchi o neri, uomini o donne, africani o europei. Eravamo diversi, ma uguali, eravamo lontani, ma vicini. I ragazzi qui forse non hanno il telefono, dei bei vestiti, forse non hanno da mangiare in abbondanza, forse non hanno neanche una famiglia, ma hanno dei sogni, dei sogni che sono importanti.
Quando ho lasciato Huambo per ritornare a Luanda, osservando l’Angola per 11 ore dal finestrino di un autobus ho pensato alla speranza che questa terra meravigliosa un giorno possa avere giustizia! Così che M. e i ragazzi come lui possano realizzare i propri sogni…. E avere delle condizioni di vita migliori per poterlo fare nel luogo in cui sono nati. Vorrei poterlo urlare al mondo intero!!
Sono grata al mio sogno per avermi portato qui in Angola e per avermi fatto scoprire una bellezza disperata.
francesca fraiese