di Giulia Lupo
Giornata di sole. Siamo a Riberalta, è venerdì mattina e l’aria calda ci avvolge ricordandoci la parte del mondo in cui ci troviamo. Stamani il mattino è differente: ci svegliamo, facciamo colazione, dopo di che ci rechiamo al vicariato dove una macchina ci attende per accompagnarci alla formazione.
Ho sentito molto parlare del carcere boliviano e stamani lo visiteremo. In una strada tangente alla piazza centrale di Riberalta si innalza un edificio, molto distante dalla tipica architettura riberaltegna fatta per di più di piccole casette di mattoni rossi o legno. Quest’ultimo è alto, possente e di colore scuro e riporta un grande scritta “POLICIA”.
Non appena arrivate scendiamo dalla macchina con tutti i nostri materiali e ci prepariamo ad entrare. Saliti i cinque scalini che separano la vita dalle sbarre ci ritroviamo in un ampio spazio a cielo aperto, intorno a noi polizia, le divise, le armi. Già essere in quel luogo mi provoca un brivido, comincio a sentire una sensazione strana, come di oppressione, di paura. Entriamo in un piccolo ufficio per il controllo, al suo interno un uomo, camicia bianca e baffetti, intorno a noi un’aria impregnata di fumo di sigaretta. Ci osserva, ci presentano come educatori senza frontiere arrivati per proporre delle attività alle donne.
Il signore ci scruta amichevolmente, ci rivolge un sorriso e ci lascia il via libera per l’ingresso. Scortati da delle guardie ci ritroviamo davanti al primo cancello, sulla sinistra c’è un piccolo tavolo in legno dove si trovano altre guardie sedute, nel lato destro una cella, nella quale stanno due uomini rinchiusi. Lo spazio è a malapena per una persona, ma loro stanno lì, uno fissa il vuoto l’altro con la faccia tra le sbarre è più occupato a capire cosa succede fuori.
Una volta passate oltre ci troviamo in una stanza buia, la cui unica fonte di luce deriva dalle celle maschili laterali. Circa sette porte ferrate e dietro queste centinaia di uomini, chi in piedi, chi per terra chi si allunga dalle sbarre per attirare le attenzioni delle guardie. Si sentono persone urlare per comunicare da una cella all’altra e un gran caos generale.
Sono incuriosita da ciò che ho intorno, ma passo a testa bassa, quasi con il timore di vedere cose che non voglio vedere, captare situazioni che poi non dimenticherei facilmente e mentre cammino sento la pesantezza degli sguardi addosso. E’ la prima volta che entro dentro un carcere e ciò che sento è qualcosa inspiegabile, simile al disagio alla paura di aver messo piede in qualcosa di molto più grande di me, di quello che posso comprendere di quello che posso accettare.
In fondo alla stanza buia c’è un’ultima cella sul lato destro, quella femminile ed è lì che siamo dirette. L’odore è soffocante un misto di muffa, cibo e polvere ed una volta varcata la soglia della cella si fa sempre più intenso. Il mio primo pensiero è chiedermi come facciano le persone a respirare quest’aria quotidianamente.
Veniamo accolte da occhi interrogativi, alcune ci riconoscono, si ricordano dell’attività svolta l’anno passato, per altre siamo trasparenti. In uno spazio stretto e lungo sono posizionati dodici letti: cinque a castello e un paio singoli. Sul lato destro uno spiraglio di luce illumina un lavandino comune, dove una donna è intenta a fare il bucato attingendo da una bacinella viola. Dall’altro lato un muro sfondato, con ancora i mattoni a vista, creato con la finalità di allargare gli spazi e mi pare di scorgere un piccolo frigorifero dietro le pietre rosse. Le pareti sono azzurre e arancioni con macchie di muffa presenti agli angoli e grossi pezzi di intonaco venuti via per l’umidità.
Ogni letto è diventato un po’ la casa, il luogo in cui ognuna di loro ricrea il proprio spazio confortevole. C’è chi ha appeso al muro foto dei familiari, chi è circondata da gomitoli di lana e passa la giornata a creare zainetti per guadagnare qualcosa per la vita in carcere e chi cuce elastici decorati per i capelli. Mi siedo su un letto, è durissimo, senza materasso. Osservo ciò che mi circonda e mantengo un sorriso di cortesia, ma dentro ho il caos, un caos fortissimo. Sento un nodo alla gola stretto. Non so cosa possano aver commesso queste donne in vita loro e non mi interessa, so solo che ciò che mi circonda mi fa soffrire.
Questo turbinio di sensazioni negative si placa nel momento in cui iniziamo a parlare con le ragazze. La prima è L., forse la più giovane presente nella cella, modi un po’ goffi e un sorriso contagioso sul viso. Indica i miei tatuaggi e mi chiede se ho sofferto a farmeli, dopo di che cerca di mostrarmi i suoi e per farlo si toglie la maglietta in modo goffo suscitando una forte risata nelle compagne. Ci presentiamo usando i nostri passaporti giganti come siamo solite fare e dopo qualche risata per lo spagnolo barcollante e qualche curiosità delle ragazze riferita all’Italia, iniziamo la nostra attività.
Non tutte le donne partecipano, ma riusciamo comunque a coinvolgere la maggior parte di loro e anche chi non svolge l’attività osserva incuriosita. Per iniziare stendiamo dei fogli bianchi a terra e li fissiamo con lo scotch poi invitiamo chi ha voglia a sdraiarsi sopra. Sono in tre le coraggiose e tra queste anche L. che con il suo fare impacciato di sdraia tra le risate delle compagne. Si percepisce subito che queste è un bel momento per loro, che si stanno distraendo, che quello che stiamo proponendo è qualcosa di nuovo, mai visto.
L’attività proposta consiste nel creare linee intrecciate usando le forme del corpo o delle loro mani; una volta fatto ciò abbiamo distribuito colori per decorare e con i quali potevano scrivere parole significative della loro vita e il proprio nome. L’obiettivo era creare uno spazio di condivisione, riflessione e rilassamento. Iniziamo a disegnare, colorare e scrivere; il mio spagnolo barcollante mi crea difficoltà nella comunicazione, ma ci scambiamo sorrisi, in qualche modo riusciamo a capirci. Continuiamo per una buona mezz’ora e ciò che viene fuori è un dipinto coloratissimo, in netto contrasto con ciò che ci circonda.
I colori sono per lo più colori gioiosi, che richiamano l’idea di libertà, di vita di spensieratezza, di aria. In conclusione c’è un momento di condivisione: chi vuole può leggere le parole che ha riportato sul disegno. Tra le tante si legge “amore”, “speranza”, “pazienza”, “forza”. Incredibile il contrasto che nasce tra i loro pensieri e questo luogo così poco umano in cui sono rinchiuse. Alla fine dell’attività il clima che si respira è di fiducia, apertura e confidenza. Pare che anche l’aria si sia fatta più leggera e respirabile e così tra domande e risposte arriva il momento di salutarci.
Ci abbracciamo forte, ci ringraziamo a vicenda per la mattinata condivisa e ci dirigiamo verso l’uscita. Tutte e tre camminando in un silenzio rispettoso, riflessivo, ci guardiamo, ma senza troppe parole. All’uscita la prima cosa che capto è il sole che si poggia pesante sul viso e l’aria, fresca, pulita nonostante il calore del mezzogiorno.
Per vari giorni ho pensato al carcere di Riberalta e ci penso ancora a cosa staranno facendo, se si ricorderanno di noi, se hanno la forza di sopportare ciò che le circonda ogni giorno. Non so, io so solo che sono grata all’esperienza che ho avuto la possibilità di fare, grata alla Bolivia per essere una meravigliosa terra che mi ha ospitato, accolto e coccolato per un mese.
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