di Giulia Gallo
Zaino in spalla. I miei piedi imboccano una nuova strada, lontana. Camminando guardo i miei sandali sulla sabbia e su quella terra così rossa. Ogni passo è importante, perché in ognuno di loro ci sono io, ci sono i miei pensieri, i miei sentimenti.
Oramai rimangono solo ricordi di quella terra africana ma i miei passi sono ancora lì, dove li ho lasciati, a Luanda, in Angola.
Il tempo che ho trascorso è stato breve ma così denso e potente da attraversarmi dentro e da toccarmi il cuore. L’incontro con la sofferenza altrui ci mette di fronte alla nostra sofferenza. E così ci scopriamo sempre più vicini, anche se abbiamo un diverso colore della pelle o se abitiamo due diversi continenti.
Mi chiedo, c’è differenza tra il dolore di un genitore angolano e il dolore di un genitore italiano, quando entrambi hanno perso un figlio? C’è differenza tra l’amore che provano fra loro due fratelli angolani e l’amore che provano fra loro due fratelli italiani? La felicità, la tristezza, la gioia sono emozioni che ci accomunano tutti, in quanto esseri umani, anche se camminiamo su una terra diversa.
La terra di Luanda è calpestata da tantissimi passi angolani che la rendono così viva, caotica, affollata, abitata. Gli angolani vivono le strade, percorrendone chilometri e chilometri al giorno, riempiendole così di suoni, rumori, odori, colori, cibi, bevande, vestiti e oggetti disparati, venduti in mezzo al traffico e tra gli ingorghi delle automobili e dei taxi che si infilano, caricano gruppi numerosi di persone.
Penso che lì sia racchiusa la vita vera: tra quelle casette di mattone, dai tetti in lamiera, tra le strade di terra rossa, piene di buche, tra i piedi scalzi dei bambini che corrono facendo rotolare i copertoni delle macchine, tra le voci delle bambine che cantano, saltano e battono le mani, tra i gruppetti di alunni che vanno a scuola, con i loro grembiuli bianchi, tra le donne che portano enormi pesi sulla testa.
Quanta forza hanno dentro di sé le donne angolane! Il peso più fragile lo portano in grembo o sulla loro schiena, avvolto in un telo colorato. Quanta forza che passa inosservata e non valorizzata. È una forza potente ma silenziosa, espressa dai loro occhi, dalla loro gentilezza, dai loro sorrisi, dai loro saluti. Dall’accettare di ascoltare ciò che hanno da dire delle volontarie italiane, dal loro modo di ringraziare e scegliere di mettersi in gioco, superando sé stesse e i loro limiti, svolgendo un’attività semplice e banale, come colorare, con serietà, eleganza e dignità. Quanta bellezza dietro quello che le donne non dicono.
Quanta bellezza in tutto ciò. È una bellezza disarmante, che abbatte muri, barriere fisiche e mentali, abbatte l’odio, la paura e le frontiere.
“Cosa vuol dire essere senza frontiere?” chiedevamo alle classi di studenti, ogni volta, prima di iniziare l’attività. Chiedevamo loro di non porre barriere tra sé e i compagni, di non giudicare, non deridere l’altro, ponendosi in una condizione di rispetto e di ascolto, garantendo la possibilità a tutti di potersi esprimere liberamente, senza alcuna limitazione. La frontiera come muro che mi separa da qualcun altro, impedendo ogni forma di dialogo e pertanto di comprensione e incontro.
Cosa vuol dire per me essere Educatore senza frontiere? Vuol dire andare oltre. Oltre i confini e gli schemi precostituiti. Apertura verso l’incertezza, il nuovo, il diverso e verso ciò che ancora non conosco. Vuol dire arricchirsi e avere nuovi occhi, per guardare le cose da una prospettiva diversa, allontanandosi dal consueto.
Per me essere Educatori senza frontiere vuol dire anche ritrovare sé stessi attraverso i gesti più semplici: scendendo giù da uno scivolo o dondolandosi sull’altalena insieme a bambini angolani, colorando, disegnando, dipingendo, giocando con loro in ludoteca, ritagliando, incollando insieme alle donne angolane del reparto malnutrizione dell’ospedale.
Vuol dire camminare insieme, guardando nella stessa direzione, essendo in ascolto silenzioso uno dell’altro, vicini, così vicini da potersi toccare, da poter sentire sulla propria pelle il contatto con la pelle dell’altro. E in uno stretto contatto fisico, come nella foto, tra la mia pelle e la tua pelle non ci sono più confini, diventiamo una cosa sola.
Non importa più se io sono italiana e ho la pelle chiara e tu sei angolana e hai la pelle scura: ci siamo solo noi, così, senza frontiere.
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