di Maria Francesca Todini
Il fragore dei clacson. I taxi celestini che sfrecciano sulla strada dissestata richiamando l’attenzione di chi li sta aspettando sul ciglio del marciapiede. Venditori di ogni genere, che con viso stanco si accostano a qualche finestrino in cerca di uno sguardo più interessato di quello precedente. Siamo in gruppo e stiamo camminando su una delle principali strade del Barrio Golf, nel municipio di Kilamba Kiaxi, a Luanda.
Approfittiamo dell’ultima giornata che ci resta per acquistare alcuni ricordi. Di ricordi ne conserviamo già tanti, forse siamo in cerca di testimonianze da portare con noi, da portare oltre la porta delle nostre case. Qualsiasi cosa che possa parlare di una bellezza che a parole non si sa bene come spiegare. I pensieri si aggrovigliano, la mente viaggia a velocità smodata e si finisce sempre nello scegliere termini che suonano un po’ vuoti nelle orecchie di chi li pronuncia. Siamo entrate in un negozio di stoffe e le pareti sono completamente rivestite di colori e stampe di ogni genere. Mi viene in mente che una di quelle possa parlare delle gonne delle donne che ogni giorno accompagnavano i loro bambini in ludoteca.
La mattina, dopo aver pulito e sistemato lo spazio, rimanevamo in attesa che qualche visetto dagli occhi grandi facesse capolino dalla porta, seguito dalla sua mamma che puntualmente ci salutava calorosamente e spesso si tratteneva con noi. Era bello osservarle nella loro immutabile fiducia. Donne che dell’attesa ne facevano una collezione di origami da appendere ad un filo per i loro figli. Donne che si affidavano al sorriso di uno sconosciuto venuto dall’altra parte del mondo in cerca della stessa speranza, che veniva tramutata in accudimento dalle loro mani forti. Si dondolavano avanti e indietro su un altalena, o su un corridoio. Tutte diverse, con il loro fardello nel cuore ma ognuna con la savana dentro. Il rosso incandescente del sole veniva enfatizzato dalla coltre di umidità e di smog che avvolgeva la città, facendolo diventare nitido come il tuorlo di un uovo.
Ogni pomeriggio, di ritorno dalle nostre attività a scuola, mi piaceva buttarci un occhio. Un regalo in più che ci veniva fatto nonostante le centinaia di emozioni già provate nelle due ore precedenti. Continuo la mia ricerca, stavolta di un colore che mi riporti indietro in quelle classi. I banchi sono decisamente più piccoli, penso che si restringano e si tengano stretti l’uno con l’altro per incentivare i loro ospiti a fare lo stesso. Sorrisi grandi e bianchissimi che risplendono col bagliore dei grembiuli dello stesso colore. Si, credo proprio che il bianco faccia al caso loro, l’unica tinta che comprende tutte le altre.
Esattamente come i bambini delle scuole medie ed elementari. Ognuno con i suoi sogni, con la sua storia, i suoi difetti e pregi ma tutti accomunati dalla voglia di costruire un futuro diverso. Penso che un educatore debba accompagnare i suoi allievi non solo nell’acquisizione degli strumenti giusti, ma che ancora più fondamentale sia far comprendere che possano inventarne di nuovi e migliori, nel caso in cui alcuni di questi diventino soltanto di intralcio per la propria realizzazione. Non tutte le conoscenze a disposizione si rivelano utili per chiunque. Quelle meno utilizzate per evitare di atrofizzarsi del tutto, possono lasciare dello spazio vuoto, affinché altre mettano radici più profonde e trasportino linfa nuova.
È così che li immagino un domani. Uomini e donne con il pollice verde, che trattano con cura il loro giardino. Che hanno il piacere di riempirlo dei fiori più belli. Che non esitano a potare le piante secche. Che non perdono mai la volontà di farlo e se anche succedesse, vorrei ci fosse sempre qualcosa a farli tornare sui propri passi. Un futuro ambizioso direi, ma se non siamo noi i primi a girovagare con la testa in cerca delle famose strade impossibili da aprire, mi chiedo con quale altro mezzo si possa trasmettere il nostro entusiasmo, questa inguaribile confidenza nelle potenzialità di questi giovani.
Il rumore dei clacson si fa più lontano adesso. In direzione per il centro, con il mio gruppo siamo sedute nella jeep, in silenzio. Il paesaggio muta a ritmi impressionanti, passiamo centinaia di angoli fatti di disperazione incorniciati dal rosso lacca dei centri commerciali. Un conflitto durato per più di 20 chilometri. Per poi risolversi del tutto con l’arrivo sulla baia principale della città, dove ogni palma è scrupolosamente piantata dietro l’altra, il prato è ben curato e diversi grattacieli dalle sembianze asettiche si stagliano nel cielo quasi a voler coprire quello che c è dietro. Tutto miseramente strutturato per dare l’immagine di un Africa in rinascita. Così mentre sono in caccia di altre vivaci tonalità da aggiungere al mio carrello delle emozioni, non trovo nulla che si accosti a quegli edifici sfarzosi. Probabilmente nulla che ci sia qui dentro, in un piccolo negozio di uno dei municipi più bisognosi, parla di tutto quel cemento. Gli avambracci cominciano a diventare pesanti, di tempo non ne abbiamo più abbastanza, si paga tutto e si esce di nuovo in strada.
Ho un tale caos nella testa, gli occhi non resistono dal guardarsi intorno nonostante debbano fare attenzione a dove metto i piedi. Ma è proprio quando smetto di girare su me stessa e fisso il suolo, che mi accorgo della loro presenza. Il marciapiede è decorato da migliaia di tappi di birra incastrati nelle sue fessure, dai colori scintillanti e un po’ consumati. Formano una strana composizione dal retrogusto amaro. Una vera e propria opera d’arte di chi non ha altro modo di sentirsi estroso ma sente il bisogno di farlo. Si dice che i migliori artisti siano le persone più tormentate ma sono anche quelli che hanno il potere di rifiorire dal proprio dolore. Questa gente lo conosce bene, lo accoglie a piene mani ogni giorno. E se un domani avessero il potere di trasformare questo tappeto di latta in un aiuola profumata?
Preferisco non farmi ulteriori domande. Siamo vicine a casa ormai, non ho tempo per i dubbi esistenziali, ne ho soltanto per pensare alla prossima programmazione. Questa è la mia risposta.
Fabrizio