di Francesca Temporin
“Mi piacerebbe andare al mare…i miei piedi non l’hanno mai toccato e i miei occhi non l’hanno mai visto. Mi basterebbe andare in cima a quella collina lassù per vederlo, ma anche quello è un territorio occupato dalla milizia israeliana e noi palestinesi non ci possiamo andare.”
Tutta la sua bellezza rimane mistero: il profumo che emana, la brezza marina, la sua infinita vastità, i colori di un sole che al tramonto scompare dietro l’orizzonte, la sabbia che si infila fra le dita dei piedi. Tutto ciò rimane rinchiuso all’interno dei bordi di una cartolina, dello schermo di una televisione oppure nelle parole di un romantico racconto. Rimane materiale d’immaginazione.
Si trova lì, ma non lo puoi raggiungere. Il tuo passaporto ha una voce molto più potente della tua volontà.
Sei nato in Palestina.
Sei cresciuto in un ambiente che non è in grado di giustificare gli avvenimenti perché l’ingiustizia ha fatto da cornice alla tua infanzia:
In certi luoghi non sei mai potuto andare perché un muro o un uomo armato ti erano di ostacolo;
L’acqua che irrigava il campo di tuo padre è stata deviata e ora la tua terra è arida;
Tuo cugino, tuo zio o tuo nonno un giorno sono stati presi da una manciata di militari, ora si trovano in carcere e non hai idea se e quando saranno rilasciati;
Un altro giorno, la casa in cui hai sempre vissuto è stata rasa al suolo da un bulldozer e tu ora vivi in una tenda perché sai che se costruisci di nuovo una casa arriverà presto un altro bulldozer a demolirla;
Ogni mattina ti devi svegliare alle 3.00 per poter sperare di raggiungere il posto di lavoro in tempo: devi trascorrere ore in fila al check-point, sommerso da una calca di palestinesi assonnati come te. Non sei sicuro che ti lasceranno passare e se non finirai schiacciato sotto i piedi della ressa, ma quel lavoro ti serve perché in Israele il salario è un po’ più alto e quegli shekel in più possono permettere ai tuoi figli di studiare;
Nel frattempo i tuoi sogni stanno facendo la polvere nell’angolo più remoto del tuo cassetto.
Tutta questa ingiustizia è un fischio perenne e sottile che fa da sottofondo ad una quotidianità fatta di “Do you want a coffee?”, dove il calore dell’accoglienza conferisce nuovamente e inaspettatamente umanità a questa assurda realtà.
La Palestina è ricca di occhi grandi e vivi, occhi scuri che raccontano storie, storie vere, storie di ingiustizia, storie che sono docce fredde, storie che racchiudono speranza perché “la speranza è tutto ciò che ci rimane”. Questa gente fa parte di un popolo che guardando al proprio futuro, anche il più prossimo, riesce a dire solamente “Inshallah” – “Se Dio vuole” – perché cresce con la consapevolezza di non avere controllo sul proprio avvenire.
Un popolo che ha imparato ad essere come gli ulivi che ne contraddistinguono la terra: tenaci, forti, antichi, ricchi di nodi che fanno soffrire e di intrecci che sanno unire.
Quando gli ulivi della Palestina potranno finalmente essere testimoni di pace?
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