di Lorenzo Bertoni
A volte vale più quello che sei e non solo quello che fai o quello che dici. Da questa convinzione sono partito quasi tre mesi fa alla volta di El Paraiso, Honduras, per immergermi nella realtà della Casa Juan Pablo Secundo, un centro di riabilitazione per giovani dipendenti da alcool e droga.
Ogni giornata racchiude incredibili sfide dettate dalla lingua, dalla cultura, dalle usanze ma soprattutto dalla condivisione della vita con questi ragazzi che chiedono a gran voce di essere rieducati ad una vita sana ma allo stesso tempo esigono di lasciare una traccia in chi li aiuta a farlo.
Con la non-conoscenza del codice formale che regola questo luogo, cioè la lingua spagnola, ma con la lucidità di mettere al primo posto la persona nel mio agire educativo, mi sono tolto le scarpe prima di entrare, ho rispettato e compreso i modi di agire ma soprattutto ho riflettuto.
Ho deciso di riflettere su ciò che i miei occhi vedono, non tanto per comprendere la fredda essenza di ciò che appare ma bensì per pormi in uno stato di predisposizione all’ascolto, capace di incontrare lo sguardo più che l’effimera essenza delle parole.
Certo, il tempo é passato e adesso riesco a comunicare in spagnolo e a interfacciarmi con più facilità alla cultura che mi sta ospitando, ma non voglio perdermi nella vacuità delle differenze perché è così che si creano frontiere, ed io, sono un educatore senza frontiere. Come il bambino che crescendo ed imparando non puó e non deve dimenticarsi come si gioca, cosí io camminando e apprendendo ma non posso dimenticare di farmi camminare dentro dall’altro.
L’educazione cambia di conseguenza in base alla geografia?
Le teorie, le leggi e i trattati sicuramente si ma l’educazione nel suo primordiale significato di tirar fuori dall’altro quello che ancora non crede di possedere, no.
Le differenze sono uno ostacolo, certo, e cercare di limitarle è compito di qualsiasi pellegrino del mondo consapevole che nessun popolo o cultura sia superiore ad un’altra, però non possiamo negare che le differenze superficiali tra gli uomini, sempre esisteranno. Bisogna quindi imparare a conviverci e mantenere salda la consapevolezza che un uomo non è tale perché parla o perché fa colazione in un determinato modo ma perché pensa e riesce a creare diagrammi d’importanza.
Troppo spesso sentiamo che la geografia, che porta con se le usanze dell’uomo (un musulmano o un cristiano nascono tali, il più delle volte, perché nati in un determinato paese ed in una determinata cultura) deve farci paura o deve essere metro di giudizio. Relazionarsi al diverso da sé, perché solo di sé si può parlare, (io non sono certo uguale ai miei compagni di viaggio) è sempre difficile ma questo vale in Italia con gli italiani come in Honduras con gli honduregni. Cambia solo il numero di concetti umani che si hanno di diverso. Come uomo e in seconda istanza come educatore-pensante, non posso che scegliere ogni giorno di mettere in primo piano l’individualità dell’essere umano.
Ovviamente sarei ipocrita se non ammettessi che non è stato facile adattarsi ad un’altra cultura, che non è stato facile apprendere e stare apprendendo un’altra lingua, che strutturare e pianificare attività di teatro e di scrittura sia stato immensamente più complicato che farlo in Italia e che persino la vita quotidiana sia carica di difficoltà e continui spunti di riflessione e confronto con sé stessi. Tutto questo però fa parte dell’educare perché, mi scuserà Socrate, ma sapere educare, secondo me, non significa solo tirar fuori dall’altro qualcosa ma soprattutto essere capaci di far tirare fuori dall’altro qualcosa di te, solo così si potrà essere credibili testimoni di cambiamento e di riflessione interiore. Nessun libro ci potrà mai insegnare come si fa, nessun trattato e nessuna regola scritta, solo mettendosi in gioco con sguardo attento al particolare ma mai critico e con la stella polare dell’educazione pronta a guidarci, che si può imparare a farlo.
Se le differenze che ci allontanano sono poca cosa rispetto a quello che ci accomuna, perché decidere di viaggiare e lavorare all’esterno? Se siamo tutti diversi perché decidere di allontanarsi ancora di più dall’uguaglianza apparente?
Perché il viaggio fisico può facilitare il cammino interiore che ogni uomo e soprattutto ogni educatore deve fare, perché le difficoltà che la lontananza dalla nostra casa materiale e dai nostri affetti ci fa sperimentare, ci conducono inevitabilmente a crescere a livello personale e professionale.
La geografia non cambia nulla,
gli sguardi,
i caratteri somatici del viso,
la lingua,
tutto questo è futile
quando il desiderio di educare
e lasciarsi educare
pervade il cuore del viaggiatore.
Una strategia per comunicare,
per assecondare i propri codici del mondo
a quelli di chi ci accoglie,
si troverà!
Cosa cambia allora?
Perché vivere il diverso per superarsi?
Per vivere la precarietà
di non avere le certezze di sempre,
per vivere le difficoltà dettate
dalle futili usanze umane
che di fronte alle stelle e ai fiori
non sono nulla!
Con questa consapevolezza
ogni dolore
ogni monte
ogni palude
ogni rovo
puó essere superato.
Camminando e facendosi camminare
dagli esseri umani
che lasciandosi educare,
ci educano ad essere.
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