di Giulia Feroci

In questo scritto cercherò di raccontare un po’ della realtà in cui vivo da tre mesi a questa parte.

Abito in un quartiere periferico di Luanda, capitale dell’Angola. Qui, sono circondata da tantissime realtà, molto distanti dalla vita che conosco.

Vivo nella “Casa dei volontari” insieme ad altre cinque persone. La casa è situata all’interno di un compound che comprende un ospedale, con la ludoteca in cui lavoro, e la casa dei Padri della congregazione religiosa del “Don Calabria”.

Dalla soglia della nostra casa, se si gira lo sguardo verso sinistra si vede un muro alto, interrotto da una porticina grigia chiusa a chiave. Al di là di quel muro vivono le Suore -della stessa congregazione- che, tra le tante cose, gestiscono un istituto scolastico che accoglie quasi duemila studenti tra ragazzi e bambini.

In questo periodo ho avuto modo di svolgere delle attività educative in alcune classi della suddetta scuola, il che significa scambiare sguardi con quasi cinquecento persone, perché qui ogni aula è composta da circa cinquanta studenti. Tra i tanti ho avuto modo di conoscerne meglio otto, tutte ragazze.

Queste piccole donne, quando termina l’orario scolastico, non rientrano a casa dalle proprio famiglie ma restano nella casa delle Suore che è anche la loro. È una comunità, una seconda famiglia.

Sono postulanti, questo significa che al termine degli studi probabilmente intraprenderanno la vita di chiesa e diventeranno Sorelle a loro volta.

Due settimane fa ho avuto l’opportunità di proporre loro alcuni spunti di riflessione sul tema del gruppo mediante un’attività in stile Esf. Queste ragazze, come tutte le adolescenti, si trovano a dover affrontare le difficoltà delle relazioni amicali che, senz’altro, sono accentuate quando si vive in una comunità religiosa.

È stato un incontro particolare.

Le postulanti sono state capaci di accoglierci e di apprezzare il nostro lavoro, cosa che non è da dare per scontata, anzi. Non hanno fatto un cenno neanche quando, nel mio portoghese ancora stentato, ho sbagliato la coniugazione di un verbo o la pronuncia di una parola. Hanno accolto noi Esf e il nostro modo di fare educazione che è, indubbiamente, molto diverso da quello che si usa qui. Hanno dai quindici ai ventidue anni e, senza troppa vergogna, ci hanno raccontato di loro. Delle difficoltà di una vita comunitaria in cui sei circondato da persone, a volte molto diverse da te. Con i loro interventi ci hanno spiegato e ricordato l’importanza del confronto e della sincerità per poter risolvere i problemi all’interno del gruppo, nel rispetto delle diversità di ognuno.

Hanno dimostrato una maturità tale che sono state loro a lasciarmi molto su cui riflettere, altro che il contrario. Al termine dell’attività ci hanno ringraziato più volte e hanno salutato con un applauso che ho subito ricambiato facendo suonare le mani fortissimo, come a fargli capire che ero io a ringraziare loro.

Non è facile accogliere e comprendere modi di essere diversi dai nostri, anche nella nostra stessa casa con i nostri genitori o i nostri amici, con persone che crescono con una stessa cultura, nello stesso paese. Per chi entra in contatto con una cultura diversa, che sia in terra straniera o nel proprio paese natale, tante volte può essere ancora più difficile. Spesso non riusciamo ad accettare chi non è uguale a noi, chi non si conosce. Nonostante tutto non riesco a non pensare che sia proprio questo incontro di diversità ad arricchire le nostre vite e quelle degli altri. Mi sento di affermare con estrema sicurezza che,  in queste esperienze che cerco lontano da casa, si riceve sempre in misura maggiore – dal posto in cui si è e dalle persone che si incontrano – di quello che si pensa di poter lasciare.

 

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