di Gabriella Ballarini
Ritorna il conto dei giorni, giorni che, già da oggi, sono l’inizio di un conto alla rovescia che raggruppa gli anni e li rimette in circolo.
Che cosa siamo arrivati a fare in Albania?
Ancora non lo so di preciso, quello che so, è che io sono qui per ricordarmi di me. Dei miei gesti giovani, di quando piangevo la notte nella mia soffitta di Prizren e sognavo in albanese e credevo di cambiare il mondo con un gesto e ripetevo il gesto all’infinito per fare la magia e la magia non avveniva mai. Era il 2002, poi il 2003 e poi il 2004 ed io coltivavo la mia ossessione per il Kosovo e per la lingua albanese, coltivavo il giardino fiorito che cresce dopo le guerre, che vive di colori da rispolverare. Era il 2018, era oggi, che camminavo qui, dove la lingua mi racconta gli stessi suoni, che ormai hanno perso significato e concretezza. Restano gli odori di calce e legna appena tagliata, di composta di frutta e pane caldo, di the alla menta e caffè turco. Tutto si mischia ora, pochi minuti prima di chiudere quaderni e computer e andare a dormire, prima di dire “buonanotte” e sperare di dormire e di sognare e di sentire ancora tutto domani, domani che cominceremo a far vibrare le parole, tradotte, le parole, echi di arrivederci giovinezza.
E il domani arriva, arrivano le cose da fare e le persone da incontrare.
Siamo 14, un gruppo interessante, fatto di giovani in Servizio Civile, di educatori locali, di Educatori senza Frontiere. Il cerchio inizia, io mi siedo per terra e parlo e ascolto. Ascolto questa lingua del mio passato e le parole, come sottotitoli di un film che avevo la sensazione di aver già visto, prendono forma nella mia testa e di moltissime ricordo il significato e qualche volta, mentre parlo, mi esce una parola in albanese. Mi emoziono, così, senza preavviso. Nel pomeriggio, mentre i volontari giocano con i bambini, scrivo e programmo le attività dei giorni successivi e la coordinatrice si avvicina e mi dice: ma tu capisci vero quando parliamo? Io capisco. E non solo capisco, sento delle cose che avevo messo in un angolo della memoria, sento la maestosità del ricordo dell’inizio di questa vita. Della mia vita sparpagliata. Di tutte le volte che parto e poi torno e poi resto e poi non so mai quello che succederà.
E così capisco il senso di questo viaggio, che è il numero 100? No, non lo so che numero è, ma uno tra molti viaggi di questi ultimi 20 anni, ma il primo viaggio nella memoria che ho la sensazione di vivere in maniera così potente e prepotente. Comprendo, seduta su questi scalini del Murialdo, nella cittadina di Fier, che la lingua è un codice che apre delle porte, che la cultura che la lingua stessa emana, è l’emanazione di un intero popolo.
Penso agli anni di lavoro, come fossero spille da appendere allo zaino, come fossero abbracci da restituire, come fossimo tutti destinati ad abitare un’unica terra e ancora non ce ne rendessimo conto. Lo so, il mio pensiero è molto confuso, o forse è solo il riflesso di un tempo buio, quello in cui vivo e in cui vivi anche tu, un tempo in cui le persone sono cose, oggetti da riporre o di cui liberarsi.
Scrivo da questo scalino e di fronte a me vedo decine di ragazzi e ragazze che giocano, che esultano per un rigore, che saltano la corda, che si rincorrono per un nascondino. Sento le voci che cantano e cercano una chitarra, un amplificatore, un sorriso inaspettato.
Era il 2018, ed ero tornata a parlare albanese e frammenti di gioia e dolore si erano riposizionati nella mia memoria e non ero fuggita: questa è la formazione per me. Incontrare le persone e farsi inondare di vita.
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