di Flavia De Marchis
Quarantatreesimo giorno in terra boliviana. Il tempo riberaltegno è da poco terminato e quello in Santa Cruz appena iniziato. Come il primo giorno sento che devo documentare per testimoniare, per non dimenticare. Mi serve per capire che l’ho fatto davvero, che sono qui, che sono in viaggio. Nella mia mente riorganizzo immagini, esperienze, odori, sensazioni. Provo a costruire con l’immaginazione un album fotografico dove attacco le prime foto scattate con una macchinetta usa e getta.
La prima foto è quella che ritrae le donne del carcere. È un po’ sfocata ed è stata scattata dalla Pincha, una super donna che ha deciso di portare speranza in un luogo dove odori, pareti e suoni non promettono nulla di buono. Le donne sono lì, unite, un po’ per costrizione, un po’ per sorreggersi. Sovrappongono, uniscono, intrecciano le loro mani, le colorano e alla fine hanno il coraggio di pronunciare parole che sanno di libertà, fra lacrime che lavano, che purificano. Sui muri ci sono foto di bambini, cuori di carta regalati per la festa della mamma e delle scritte da cui posso leggere le parole “ottimista e positiva”. In tutta questa meraviglia faccio fatica ad unire tutti i tasselli di questo nuovo mondo.
La seconda foto ritrae Zac, sua sorella e sua mamma. Quest’ultima è una donna che contemporaneamente è mamma, moglie e animatrice della fede in qualche campo sperduto nell’Amazzonia. È arrivata da noi dopo un lungo viaggio per fare una formazione ed ha portato con sé i suoi bambini e qualche zaino pesante. Lei è presente, è viva in quello che fa. Assapora la possibilità di lavorare su se stessa per poi portare nella sua comunità qualcosa di nuovo. È responsabile, è tenace. La sua forza si alterna alla dolcezza con cui si prende cura dei suoi bambini, facendoli mangiare, cambiandoli e pettinandoli ad ogni pausa. E mentre scrive sua figlia la guarda rapita, con ammirazione. Qui la parola “esempio” trova il suo essere.
La terza foto è una foto di gruppo: sono le educatrici di Nuevos Horizontes. Sono tutte donne, sono mamme, sorelle, figlie, amiche. Sono le poche persone che qui riescono a credere che un bambino, se pur diverso, possieda capacità e doni che sono solo più difficili da scovare. Queste donne lavorano tutti i giorni con bambini disabili che sono emarginati da quelli che si autodefiniscono “normali”. Loro invece li mettono al centro del mondo, se ne prendono cura, li stimolano, giocano e ridono con loro. Sono donne, sono forti, e nei giorni di festa si fanno trecce laterali e ballano per la strada con gonne rosse.
È arrivato il momento di un’altra foto: la “mamma profe” (è così che l’ho chiamata nella mia testa). Qui la mamma profe indossa alti tacchi gialli, pantaloni attillati, una maglia blu elettrico. La fascia per i capelli, orecchini e trucco tutto giallo e blu, rigorosamente abbinato. Ha occhi profondi e un gran sorriso. Ha una bambina che si vede ma non si sente. Partecipa attiva, legge la sua lettera e si commuove molto. Si ferma, prende fiato, si tocca il collo e riparte. Si risiede con una presenza e dignità che fanno invidia e meraviglia. Nel frattempo sua figlia si è addormentata sulla sedia. Poteva lasciarla li, ma la prende in braccio. Potrebbe lasciare il laboratorio o perlomeno potrebbe smettere di scrivere, anche perché ha una scusa perfetta, ma continua a scrivere. O almeno ci prova: non riesce a prendere il foglio che aveva posato al suo fianco perché ha sua figlia in braccio. Non riesce perché nessuno l’aiuta, ma continua a sorridere e a provarci, piano piano. Non ci riesce, nessuno l’aiuta e non si indigna. È difficile stare al passo con il gruppo quando hai una figlia, tacchi alti e gialli e una borsa a tracolla.
Questa pagina dell’album fotografico è dedicato a piccole polaroid. Ci sono le studentesse incontrate in questo mese: le futboliste che indossano la divisa scolastica (una polo e una gonna) con sotto scarpe di calcetto e calzettoni rigirati e ammassati sulle caviglie; c’è una rapper e una dj; c’è un unicorno e una mini-me. Arrivano altre polaroid che ritraggono volti familiari, volti delle hermanas che si sono prese cura di noi, coccolandoci sempre e facendoci sperimentare esperienze e luoghi inimmaginabili. Eccole, le vedo sorridenti: Ciria, Claudia, Pilar.
Dopo tutte queste mamme e donne non posso non pensare a mia mamma. Così metto una sua foto fatta durante una videochiamata in cui mi ha detto quelle parole che più di ogni altre mi hanno fatto star bene, sentirmi sicura. Sono parole che spesso ho sentito dire, ma se a pronunciarle è mia mamma, allora è vero!
Si. La Bolivia è donna, è mamma, è hermana, è compagna di viaggio. La Bolivia è una bambina vestita di verde, giallo e rosso che è un po’ impacciata in quegli abiti “da grande”. Il motore di questo paese, il suo cuore che batte, le sue braccia che lavorano, le sue gambe che camminano, sono motori, cuori, braccia e gambe di donna.
Donne che si rappresentano su un foglio con piedi grandi, occhiali verdi, contorni neri e sfondi colorati. Donne che disegnano su un diario, che saltano la corda e che giocano con una palla.
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