Nel mese di Giugno un gruppo di 13 docenti palestinesi del college Terra Sancta di Betlemme hanno preso parte ad un corso di formazione tenuto da Educatori senza Frontiere presso la nostra sede di Milano. Qui di seguito una riflessione su questa formazione condivisa.
Scritto da Gabriella Ballarini
L’arrivo degli insegnanti era previsto per il martedi e dal lunedi, nell’aula Margherita, tutto era stato predisposto. Martina è passata a salutarci durante le sue vacanza dal Servizio Civile (Madagascar ndr) e l’abbiamo messa subito al lavoro per assemblare gli astucci: le penne, il quaderno, la borsa. Ogni materiale corrispondeva già ad un’attività che avremmo fatto insieme.
La formazione va pensata così: una serie di dettagli apparentemente insignificanti, che uniti creano una composizione tale per cui ognuno, dal suo punto cardinale, riesca a darle un senso, un significato e soprattutto una direzione.
Sono andata a prenderli in aeroporto, con un cartello grande, come quelli che si vedono sempre quando si esce dal ritiro bagagli, ma che io non avevo mai fatto. Mi sentivo strana, felice che arrivassero e confusa, perché in verità non sapevo bene che giro avessero dovuto fare loro, visto che per motivi legate alle restrizioni israeliane in Palestina, non avevano potuto prendere il volo da Tel Aviv.
Quando sono arrivati, ci siamo abbracciati e siamo andati subito a sistemarci in cascina.
Il corso si è aperto presentando la casa, le attività di Exodus e il metodo educativo. Cristina ha approfondito i temi cardine della nostra personalissima pedagogia della speranza che si fonda sulla possibilità di vivere profondamente la vita e non esistere superficialmente. Il metodo di Exodus è poi stato un filo rosso che ha accompagnato gli insegnanti fino all’ultimo giorno in casa, ma andiamo con ordine.
Dopo l’introduzione ci siamo presentate, in 4 abbiamo accompagnato tutta la formazione: Benedetta, Francesca e Marta sono state tutto il tempo in aula, per prepararsi al loro viaggio a Betlemme, che avverrà alla fine di questo anno.
Tutto è iniziato da una strada tracciata su un foglio per capire come siamo arrivati fino a qui, che strade abbiamo percorso e, su queste strade, quale è stato il punto cruciale, cosa ha sconvolto le nostre esistenze?
Sì, siamo partiti dal cuore delle cose, da quella parte che spesso tralasciamo in favore di una formazione che rafforzi le nostre competenze, come fosse una formula magica o una soluzione.
La formula magica, forse c’è, ma è conservata dentro di noi, come un’opera d’arte che si svela lentamente ai nostri occhi, se ci diamo l’opportunità di vederla.
Con lo specchio abbiamo indagato il nostro sguardo, come non lo avevamo mai fatto prima, uno alla volta, in un silenzio profondo.
E poi abbiamo realizzato i nostri ritratti e molti altri piccoli dettagli: le foto portate da casa, da Betlemme, gli oggetti importanti, presi dai cassetti, tutto il materiale prodotto. Ogni passaggio ha contribuito a costruire il nostro “spazio sacro”. Che cos’è lo spazio sacro?
È qualcosa che mischia insieme il tempo, la memoria di un popolo e quella di un individuo, è la sintesi del presente che si fa progetto, è infinito presente delle immagini e racconto ispirato dai silenzi.
Quando tutto è pronto, passiamo di fronte a queste meravigliose opere d’arte, una ad una, posando lo sguardo su ogni oggetto come fossimo ad una mostra d’arte contemporanea. Ogni pezzo unico, è un frammento di speranza, per poter tornare in terra di Palestina con la promessa di essere un gruppo, di sostenersi, di valorizzare tutto, il bello, il brutto, il fragile, come parte dell’umano vivere e della speranza che vive nell’insegnamento.
Ci rivedremo presto, continueremo a camminare insieme.
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