Scritto da Lisa Silvagni

Sto per fare un grande calderone di cose, riflette quelle che ho in testa suppergiù, tutte mischiate e comunque collegate, una specie di ricetta disordinata, che però spesso mi accorgo avere un sapore nuovo e quindi più convincente di quelle rifatte scrupolosamente alla lettera.
“Dicen que de todos los animales de la creación, el hombre
Es el único que bebe sin tener sed
Come sin tener hambre y habla sin tener nada que decir
Por eso es mejor forjar el alma
Que amueblarla”

[Prologo – Finisterra, Mago de Oz]

Che dire quando la comunicazione non verbale ha più riuscita di quella verbale?
Niente, semplicemente non c’è bisogno di dire niente…

Non parlando praticamente malgascio, sono riuscita comunque a creare vari pomeriggi da me rinominati sensoriali-educativi per i ragazzi. Tramite lo sport, prove, giochi e parlando il Gibberish (la lingua senza significato) in cui si mette in risalto o ci si priva di un senso, siamo entrati in contatto e abbiamo avuto modo di scambiarci informazioni di nessun e tutti i tipi allo stesso tempo.
Una considerazione però si fa spazio dentro di me: è sempre più evidente che le parole non servono, soprattutto se le si usa come scudi dietro ai quali nascondersi o come armi per fare breccia e ferire. Questo è sicuramente un grande punto da cui ripartirò nel mio progetto educativo che sto sagomando su me stessa per crescere sempre di più come professionista e persona. La mia esperienza mi sto accorgendo, essere a tratti come un serpente che riesce ad intrufolarsi nelle piccole fessure, ma che non si diverte a entrare in quelle già aperte e collaudate.
Stare constatando le difficoltà della mia memoria e una pigrizia strana, a me prima sconosciuta, per imparare a parlare fluentemente una nuova lingua, mi ha fatta riflettere e soffermare ancora di più sullo scambio, quello vero, di sensazioni, dove parlare non serve, perché il silenzio spesso grida più forte.
Stavo, e sto tutt’ora, inseguendo il mito di poter parlare più lingue possibili perché per me essere educatrice vuol dire costruire solidi ponti, ma grazie a questa esperienza ne ho rivalutato la priorità.
Infatti, al tempo stesso mi sono ritrovata a parlare la stessa lingua di Rosario e Cristina, ma ciò non mi ha assolutamente agevolata nella comunicazione con loro e si sono venute a creare incomprensioni e attriti dati dai nostri modi diversi di vivere e vedere la realtà. Questa frase mi è stata molto di ispirazione approposito:
Quel che è in tuo potere è tuo. Ma a quel che ti sfugge tu di fatto appartieni” .[Edomondo Jabès]

Mi è piaciuto molto, con i suoi contro, vivere 24 ore su 24 all’interno del centro perché mi ha dato la possibilità di assaporare lo scorrere delle giornate una dopo l’altra, dalla corvèe la mattina per preparare il pranzo, a piantare e vedere crescere giorno dopo giorno gli ortaggi fino a mangiarceli, andare al Don Bosco, ballare, imbiancare o cantare tutti assieme.
Vivere in comunità è stata una dura prova e palestra quotidiana per me, che tendo sempre ad aggirare le regole o affrontarle di petto. Ho imparato a mangiare lentamente, tant’è che sono diventata l’ultima a finire il riso nel piatto e mi è nato spontaneo approfittare del momento di preghiera dei ragazzi per ringraziare anche io di quanto sono fortunata ad avere l’opportunità di creare quello che ancora oggi non so dove mi porterà o cosa sarà, ma intanto ringrazio e mi auguro sarà grandioso.
Ho avuto la possibilità di vivere diversi momenti all’interno della stessa esperienza, nel primo mese di permanenza c’è stata la dimensione del gruppo, nel secondo periodo la “solitudine” (sulla carta) del vedere man mano la partenza di tutti i compagni con cui avevo iniziato questo viaggio; infine ora, un terzo cambio, ovvero le ultime due settimane qua senza né Cristina né Rosario, che sono temporaneamente tornati in Italia, e qualche responsabilità in più sulle spalle.
Nella varietà di tutto ciò però ho provato una grande emozione crescermi dentro: la fiducia. E ho avuto la possibilità di vederla nitidamente, ovvero il progetto di tesi che avevo scritto all’università corrispondeva ad uno dei progetti che aspettano di essere finanziati e ho avuto il piacere di poter donare quelle che sono le mie conoscenze per questo fine. Mi ero interrogata più volte in questi anni sull’utilità che il mio lavoro avrebbe potuto avere in un futuro e poterlo vedere diventare realtà è una bella sensazione.

Infine la generosità e cercare di crearmene un’idea mia, per quanto possibile, è stato un ritornello spesso presente durante le lunghe serate solitarie ad Ambalakilonga. E più di tutti i ragazzi mi hanno sorpresa, e non loro in quanto ragazzi, ma nella condizione che si trovano a vivere, di privazione di affetto e mezzi, ma che rimangono aperti all’incontro e allo scambio. Questa è stata una generosità talmente abbondante e gratuita che mi ha coinvolta e fatta sentire veramente piccola ed insignificante. Ed è stato rigenerante!
Ultimamente mi ripeto spesso: “Respira Lisa, non farti sommergere dalla barca, ma imbarcati”.

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