Scritto da Gabriella Ballarini

La storia è questa.

Che non c’è una storia sola, ma ci sono dei salti e poi degli scalini e poi delle parole e delle poesie ad un certo punto e poi ci sono io e ci sono anche Marta, Elisa, Elisa e Francesca.

Siamo cinque, di stature diverse, bianche, abbiamo anche la stessa maglietta alcune volte. Ci capita di ridere e di piangere e poi facciamo anche le capriole. Le facciamo nei momenti più inaspettati e chi ci guarda, ci guarda ancora di più.

Non si capisce? Allora ricomincio.

Questa storia parte da Santa Cruz de la Sierra e atterra a Santa Cruz de la Sierra, ma passa dalle nuvole e poi anche dalle pietre e ci sono i letti tutti attaccati e la stanza grande con le ventole, ci sono 10 gradi e poi 45, il corpo trema e si avvolge nelle sciarpe di lana e poi suda e cade addormentato alle due del pomeriggio aspettando che scenda il sole e il buio ti faccia sentire meno le frontiere.

È una storia che si interroga in continuazione, che sogna.

Sognando, come educatori, prendiamo infatti coscienza dell’esatta dimensione di ciò che è necessario per noi e per le persone con cui stiamo lavorando. Smettere di sognare ci inaridisce, come educatori e come esseri umani e proprio per questa ragione siamo uscite dagli schemi.

In una terra come quella di Bolivia, uscire dagli schemi è un’immensa scommessa metodologica che ribalta la cattedra e la sposta nel cerchio. Il lavoro portato avanti nelle scuole in queste settimane è proprio questo, riaprire la misteriosa scatola dei nostri desideri come adulti e misurarci sulla nostra maturità, su quando siamo capaci di raccontarci autenticamente, uscire allo scoperto, commuoverci, guardarci allo specchio e ammettere le nostre imperfezioni, affidarci al colore della tempera e accettarne anche i toni scuri.

Non si capisce ancora questa storia?

Allora ve la racconto così.

Sono tornata per il terzo anno in Bolivia, nello zaino ho messo le solite cose, quelle che mi accompagnano sempre, poi ho preso degli oggetti a caso e qualche libro, altrettanto casuale. Ho preso un quaderno grande e ho cominciato a scrivere tutto, come faccio sempre. Ho scritto anche cosa vorrei da questo viaggio e ogni giorno me lo rileggo per ricordarmi il mio sogno.

Apro e c’è scritto: vorrei, in questo viaggio, respirare ad occhi chiusi, vorrei farmi prendere per mano e non soffrire delle ingiustizie, vorrei non piangere di fronte a chi non mi capisce, smetterla di pensare che il mondo cambia quando io sono felice, costruire barche di carta e scrivere sull’acqua. Vorrei ricordarmi di abbracciare il cuscino e trovare il mio posto sul letto di tutte le città che abiterò, senza cercare il nord, rimanendo incerta sulla direzione giusta, il posto giusto, le persone giuste. Scomoda e con il vento dal finestrino. Vorrei poi ricordare a chi viaggia con me di ricordarsi cosa si prova a lavorare su quei grandi fogli, con i colori e poi rifare lo zaino e perdere lo spazzolino, di non dimenticare i fili, mai, di lasciar andare le idee, senza paura della voce che le traduce. E poi bisogna perdere l’equilibrio e bere un sorso d’acqua di bottiglia, grate che esista l’acqua e pure la bottiglia.

 

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