La lebbra è una malattia degenerativa che attacca la pelle e i nervi periferici, causando macchie in grandi quantità e, col passare del tempo, la perdita delle dita di mani e piedi, vista e udito.

“Domai andremo a visitare il lebbrosario di Fiana” ci annuncia Rosario con aria serena ed imperturbabile e subito dalla schiena mi sale un brivido di terrore. La parola lebbra mi ricorda vagamente il 1200 o giù di lì e non avevo idea che fosse un malattia tutt’oggi esistente. L’indomani partiamo alla volta del centro insieme ad Elodia, una bimba con macchie sospette che con l’occasione portiamo a farsi controllare. Al nostro arrivo ci accoglie Suor Caterina, un’ affabile suora francese con 84 anni di vita alle spalle di cui 59 vissuti in Madagascar e dalla sua espressione pacata e solare finalmente realizzo di non essere in un luogo di zombie ma di uomini. Quello che ci mostra è un piccolo miracolo: non un sanatorio o un ospedale, ma un vero e proprio villaggio e una casa. Suor Caterina ci accompagna attraverso le case in cui vivono le intere famiglie degli ospiti immerse nell’immensa foresta creata dai primi malati 50 anni fa dal nulla, la falegnameria che dalla stessa foresta fornisce una delle legne più pregiate della città, la cucina un luogo semplice e conviviale sempre pieno di persone, la sartoria dove vengono cucite scarpe comode dagli ospiti per gli ospiti, la scuola, l’orto. Infine Suor Caterina ci lascia nell’infermria dove un’altra suora da uno sguardo alle gambe di Elodia, sfoglia un libro pieno di foto di chiazze e tumefazioni e mi mostra senza esitare quella più simile alle sue macchie, si tratta di un semplice egzema Da una medicina a Elodia e poi ci mostra le pillole che vengono usate per la profilassi della lebbra: blister arancione sotto le 5 macchie, blister rosso sopra le 5 macchie. Ecco, quel suo gesto mi ha sconvolto. In quell’istante ho capito che la lebbra non era il problema di quel luogo, no, per quella ci sono libri e pastiglie. Il vero problema è fargli dimenticare la lebbra. Il problema è ridare una parvenza di quotidianità e dignità a gente che ha perso mani e piedi, e a volte anche occhi e orecchie, solo perché nessuno si è accorto di loro nel momento giusto. “A volte ci inventiamo feste e compleanni solo per farli svagare e non lasciargli il tempo di guardarsi le mani” ci racconta infine Suor Caterina e io non posso fare a meno di osservare le sue, mani piccole e serene che raccontano di accoglienza più che di dolore, di carezze più che di ferite bendate, di persone di cui prendersi cura più che di malati da curare.

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