Scritto da Roberta Perelli Paradisi
Sali su di un pulmino, ignara di quello che ti attenderà, percorri pochi metri e ti ritrovi nella periferia di Tana. Gli occhi ti si sgranano, è la prima volta che mi trovo davanti a uno scenario di questo tipo. Realizzi nell’ immediato di essere in un mondo lontano, che non ti appartiene. La strada è il palcoscenico che mette in scena la vita cittadina. Persone, centinaia di persone, sul ciglio della via centrale che camminano, mercanteggiano o siedono semplicemente in attesa di non si sa cosa. L’odore di smog ti perfora le narici. Osservi tutto, cerchi di cogliere i minimi dettagli di quel caos e vieni colto dalla necessità di avere la certezza di non scordare mai quelle immagini di vita. L’ istinto di prendere la macchina fotografica viene bloccato dalla sensazione di sentirsi il turista di un safari e di invadere l’ intimità della quotidianità di questa gente. Mi limito a guardare e mi rendo conto di essere io l’ animale, e per giunta in gabbia. Sono io il diverso. Incrocio sguardi severi, mi scontro con la storia di un paese in cui il colonialismo ha lasciato profonde ferite. Ci chiamano “ Vasa”, termine che nei secoli scorsi utilizzavano i pirati per indicare i proprietari dei galeoni che custodivano grandi ricchezze, affibbiato in seguito ai colonizzatori francesi e con cui ancora oggi gli europei, l’ uomo bianco, viene identificato. I finestrini del pulmino rappresentano quel muro invisibile tra noi e loro, fatto di un gran numero di pregiudizi, preconcetti e immagini che generano incontri mancati.
Al termine del lungo viaggio il motore si spegne davanti ad un cancello blu. Solo dopo averlo oltrepassato mi accorgo di come quel muro non sia così infrangibile. Si aprono le porte della manifestazione tangibile di quell’ idea di rispetto, condivisione, apertura e cambiamento in cui le persone che hanno costruito e sorreggono questa comunità non smettono di credere. È in questo modo che si creano ponti, è in questo modo che si aprono “strade impossibili”…
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