Scritto da Marta Scamarcia

Prima di arrivare a Byumba sono trascorse tre ore. Tre ore di jeep, in quattro sui sedili posteriori schiacciate, una vicino all’altra, sento il respiro delle mie compagne di viaggio e l’odore della nostra pelle. Ci accompagna il silenzio mentre le ruote si mangiano chilometri dopo chilometri di strada sterrata, dove lungo i suoi margini nascono case di terra e bambini di terra color della terra, quella rossa del Rwanda. Nascono filari di banani e coltivazioni di tè color verde smeraldo.

Lungo la strada incontriamo donne come colonne, portano pesi più grandi di loro. Uomini appoggiati alla terra, sorreggono muri più grandi di loro. Bambini, che sono di tutti e di nessuno. Case aride si susseguono una in fila all’altra, qualcun’altra è più timida e si nasconde dietro le altre. Qualcun’altra è vuota ma la porta è sempre aperta, il pavimento di terra battuta invita all’accoglienza e stimola la curiosità ad allungare lo sguardo oltre quelle soglie.

Lungo la strada incontriamo galline in sella a biciclette senza ruote e taniche piene e fiumi senz’acqua.

Lungo questa strada incontriamo la vastità che sta nei limiti di questa bella terra, terra rossa, rossa di storia, di quel sangue di cui si è imbevuta e non va più via e la vedi negli occhi di questa gente, e la senti rossa nel calore dei loro sorrisi che ti riempiono il cuore.

La strada è lunga, balliamo sui suoi ritmi che tira colpi alla schiena, che ti fa credere che questa terra sia la spina dorsale della nostra Terra, che l’Africa è il polmone antropologico del nostro pianeta.

Questa nostra strada ti apre gli occhi e ti apre il cuore, ti accoglie nel suo abbraccio immenso e ti respinge come straniero. Ti guarda dall’ alto in basso con occhi neri e penetranti e ti spoglia della tua nudità.

 

 

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