Scritto da Ilaria Liva
Ad una settimana dall’arrivo infinite immagini riempiono la mia testa.
Tutto intorno alle strade ruandesi si espande una distesa incontaminata di verde. Un verde vivo, un verde rigoglioso. “È così tutto l’anno?” chiedo, “Si, tutto l’anno.” Un verde che non da mai tregua, che ricopre le infinite colline di terra; alte, vanno dagli 800 ai 2.400 metri di dislivello, e noi che a scuola avevamo imparato che sopra i 2000 metri non ci sono più alberi qui rimaniamo increduli davanti a questo verde. È un verde misto, capita di vedere aghifoglie accanto a palme e piantagioni di mais. Tutto insieme, un verde unico.
Il verde, poi, si incontra con il rosso della terra argillosa. È un terreno ricco quello ruandese, non lascia nessuno morire di fame neanche un giorno dell’anno, e non lascia nessuno senza quattro mura dentro cui costruire la propria casa. Le case di questa terra son costruite tutte con la terra stessa, alcune più ordinate, con terra fatta essiccare a forma di mattone, dentro le quali si trovano le famiglie più ricche; altre con la terra ammucchiata in una struttura di legno.
È in questa terra colorata che vivo.
Tra queste immagini ci sono donne avvolte da vesti coloratissime che camminano silenziose lungo le strade, il turbante, possibilmente in tinta con le vesti, adorna le teste al posto dei capelli. Sopra questo, qualsiasi genere di carico sta perfettamente in equilibrio, chi porta un cesto di banane chi uno di mango chi uno di fragole, chi porta fasci di legna, chi teloni ricchi di foglie di the, chi taniche piene d’acqua, chi porta borse e chi, in città, porta sul tubante dei trolley, si saranno forse rotte le ruote? O forse invece qualsiasi carico viene naturalmente posato sul capo e di li non più tolto fino all’arrivo, o alla prima sosta se il tragitto si fa lungo. Ne vedo arrivare una, dietro un’altra e poi un’altra ancora, a tutte spuntano strani piedini ai lati dei fianchi, spesso nudi, aspetto che mi sorpassino per scorgere cosa è nascosto lì dietro, ed ecco piccole testoline scure che con la guancia appoggiata alla schiena si godono il ritmo del cammino, dormono, si guardano intorno tutto rigorosamente in silenzio, se gli capitasse di fare qualche versetto, qualche accenno di pianto subito una mano arriva a picchiettare il sederotto e tutto ricade nel silenzio. La maternità Ruandese. Questa, la diade mamma-bambino. Una diade inseparabile. Come koala attaccati alle schiene delle loro mamme i bambini sono fedelissimi compagni delle lunghe camminate che dettano il ritmo della giornata. Donne lavoratrici fin da bambine.
E gli uomini? Anche loro lavorano, attività diverse li vedono impegnati in gruppi numerosi per svolgere le più svariate cose, numerosi perché pochi sono i macchinari che sostituiscono la manodopera, per rifare i bordi delle strade c’è bisogno di chi porta avanti e indietro massi di ogni genere. Per sistemare un aiuola ci vogliono decine di mani che strappano erbacce.
Quando il carico da trasportare si fa pesante ecco che entra in gioco il mezzo più utilizzato: la bicicletta con un magico portapacchi e centinaia di ganci elastici. La maggior parte delle volte è così carica che sono costretti a scendere e portarla a mano, date anche le dure salite che le colline richiedono di percorrere.
Donne cariche sul capo, uomini che trascinano cariche biciclette. E i bambini? Non appena conquistano una buona stabilità sulle gambe la strada li attende con il primo carico che possono trasportare: tanche d’acqua.
Tutti dalla nascita del sole fino al suo tramonto si mettono in cammino, e il giorno dopo di nuovo, quello dopo di nuovo ancora: una vita in cammino.
Cosa vorrà dire per loro essere sempre in strada, essere sempre in cammino?
Il valore che attribuiamo al cammino, noi cittadini occidentali, è enorme, quanti momenti educativi passati sulla strada, la strada che ci insegna la fatica, la strada che ci insegna a vivere passo dopo passo, la strada che ci insegna a conquistarci le mete. La strada, quanto valore a questa strada!
E qui? Qui la strada, è la vita.
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