Scritto da Cristina Caruso

Sono arrivata in Rwanda da più di un mese ormai.

A solo sentire il suo nome l’immaginario collettivo rabbrividisce, la mente ricostruisce immagini che fanno venir voglia di chiudere gli occhi e il pensiero vola dritto a quei 100 giorni che hanno dilaniato il paese e il suo popolo.

E poi arrivo qui e mi ritrovo catapultata nella Svizzera dell’Africa, come a ragione viene definita. Un paese meravigliosamente verde e pulito, paesaggi e cieli che mozzano il fiato e nell’aria una tensione al cambiamento e una voglia di riscatto palpabili che sfociano in una continua crescita economica e sociale.

Casa Exodus, la casa che mi ospita, è una realtà presente sul territorio da ormai tre anni. È una casa che accoglie 30 ragazzi con un passati differenti ma accomunati da un forte disagio sociale. Ragazzi di strada, orfani del genocidio, o ragazzi cacciati dal proprio nucleo familiare.

Il mio compito qui, tra gli altri, è quello di fare formazione agli educatori locali, agli insegnanti della scuola di formazione professionale annessa al centro e agli animatori che vivono all’interno della casa insieme ai ragazzi giorno dopo giorno.

Non è stato e non è facile arrivare e inserirsi in un contesto già avviato.

Non è stato e non è facile arrivare qui e cercare di presentarsi non come quella che viene da fuori con la sua valigetta piena di soluzioni preconfezionate, ma come quella che sì viene da fuori e che sì porta con e una valigetta ma che dentro a quella valigetta porta con sé solo idee, punti di vista differenti e soluzioni che solo lavorando insieme possono prendere forma.

I partecipanti sono esigenti e richiedono costante presenza e concentrazione.

È una sfida, l’ennesima per me, una sfida che mi piace, che mi fa crescere come persona e che mi rende ancor di più un’educatrice educabile.

 

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