Scritto da Gabriella Ballarini
Città di Luanda, Angola, 39°C, umidità incalcolabile.
Avventurarsi in questa parte della città significa mettere in conto un cambio di scenario, voltare una pagina dopo aver vissuto in un recinto.
Al primo angolo di strada ecco due piccoli scultori intenti a godere dei vantaggi del giorno dopo la pioggia, pupazzi di fango dalle forme sconosciute a noi adulti, magicamente reali tra le rapide mani dei novelli artigiani. E i cumuli di rifiuti che avvolgono l’aria, che diventa irrespirabile, sotto il sole che squarcia i vestiti appesi ai fili spezzati. E lo stomaco si stringe e le viscere disgustano il camminante bianco, così bianco da sembrare un lenzuolo appeso al filo spinato. Salutare tutti ed ognuno nella matassa di strade che inseguono stradine e porte a penzoloni e lamiere arrotolate su pali di legno instabili ricavati da altre case, da altre strade, da altre epoche. Le abitazione basse che quasi non lo sai se ci entreranno le creature dai fazzoletti colorati in testa, le porticine azzurre e anche quelle verdi aprono ad un mondo infinito di donne, bambini e bambine, un universo di treccine con gli elastici di spugna colorati, come fiori che non sfioriranno mai. Un’odissea di panni da lavare senz’acqua, ma ecco che i piccoli arrivano con carriole giganti colme di contenitori gialli che quasi non sembrano pesare sulle loro gracili vite dal moccolo al naso e i piedi scalzi, che affondano nella polvere o nel fango, dipendendo dagli umori del cielo.
Il visitante si lascia trasportare dagli accenti degli abitanti, una moltitudine colorata che rapisce lo sguardo, ed il biancore, traccia indelebile di una differenza inafferrabile, illumina i saluti di piccole e grandi mani, piccoli ed enormi sorrisi, come quando qualcuno ti segue con lo sguardo fino a che l’orizzonte non si mangia i tuoi contorni.
La scuola è una festa di grembiulini a quadretti bianchi e marroni e saluti al visitante, la canzone sempre, per dare il benvenuto e le mani che battono e le voci che le capisci poco, ma dicono che tu puoi entrare perché porterai qualcosa di buono, perché porterai te stesso.
Vorresti metterti tutto in tasca e poi mostrarlo al tuo ritorno, perché tanto non riuscirai mai a spiegare a tutti, tutto ed ogni cosa, ma poi ti immagini di svegliarti un giorno senza più memoria e magari anche senza tasche e allora che fai? Guarderai i tuoi infradito fradici di fango e ti chiederai perché. Nessuna risposta, sono certa, ti consolerebbe, ma saprai per certo che nessuna strada merita di essere mai dimenticata.
Mascia