Il mio barrio si chiama “Independencia” ed è fatto di polvere e negozi, strade tutte uguali e gente che al mattino presto spazza gli ingressi delle case e dei chioschi.
Nel mio barrio argentino nel mese di luglio è inverno e i cani vivono sui tetti, i migranti sono paraguayani e boliviani e vivono nelle baracche che sorgono nella periferia della periferia. Sono qui da poco tempo, ma abbastanza per desiderare di rimanere, di continuare un lavoro iniziato per sfida, per scherzo, per voglia di tornare almeno nei pressi di Buenos Aires, terra che mi ha aperto gli occhi al mondo fuori dal mio mondo, tanti anni fa.
Camminavo stamattina, cercavo una farmacia e guardavo in basso ed è sempre la stessa cosa che richiama la mia attenzione, quelle suole di scarpe incastrate nella terra che diventano passi al contrario, mischiati al fango, corrosi tra le pietre. Nessuna pioggia può cancellare passi di plastica, gomma e legno, nessun freddo può nascondere lo scempio degli odori della sera quando il sole ha battuto sulle latrine aperte al pubblico.
Il mio barrio si chiama “Independencia” e quando arrivi te ne accorgi perché c’è un arco bianco dove c’è scritto il nome a lettere nere e grandi, la mia vicina di casa è alta poco meno di me e ha lunghi capelli ricci e neri, mi ricorda le mie zie dell’Abruzzo quando le andavo a trovare da piccola, viviamo in casa sua e lei fa di tutto perché sembri anche casa nostra, i suoi figli musici e danzatori ieri sera ci hanno fatto provare cosa significa sentirsi bene anche quando l’inverno punge la pelle e il cuore vorrebbe calore.
Sento che non era tempo di freddo per la mia carne, sento che il vento in faccia vorrei che fosse scirocco, ma so di essere nel luogo esatto in cui dovrei essere.
Il mio barrio si chiama “Independencia” ed è strano sentirlo così mio, strano sorprendersi ogni volta di quello che il viaggio fa per noi, di quello che noi vediamo come se i nostri occhi si aprissero alla strada per la prima volta.
Lo sbalzo tra centro e periferia della città in alcuni momenti provoca stordimento, un’ora prima sei di fronte ai grattacieli di Puerto Madero e, dopo un viaggio con un Trafic senza assicurazione, eccoti di nuovo nella Buenos Aires che non ti aspetti. Nel mio barrio coloriamo le mani con le mani e le trasformiamo, giochiamo con le parole e le disegniamo, nel mio barrio cerchiamo di fare come possiamo e non ci importa se dalla nostra mano esce un coniglio che sembra un cavallo, al massimo ci prendiamo in giro e cambiamo foglio.
Camminavo stamattina e poi ad un certo punto ho trovato la farmacia, ho comprato quello che mi serviva e sono tornata a casa.
Pensavo mentre tornavo indietro, pensavo quasi a voce alta, tanto non c’era nessuno in giro e io avevo freddo e volevo attraversare il piccolo torrente.
Credo che tornerò, mi dicevo, non importa che stagione sarà, non importa se farà freddo e la gola ne risentirà, ci sono luoghi dove bisogna tornare.
Nel mio barrio argentino nel mese di luglio è inverno e i cani vivono sui tetti, i migranti sono paraguayani e boliviani e vivono nelle baracche che sorgono nella periferia della periferia. Sono qui da poco tempo, ma abbastanza per desiderare di rimanere, di continuare un lavoro iniziato per sfida, per scherzo, per voglia di tornare almeno nei pressi di Buenos Aires, terra che mi ha aperto gli occhi al mondo fuori dal mio mondo, tanti anni fa.
Camminavo stamattina, cercavo una farmacia e guardavo in basso ed è sempre la stessa cosa che richiama la mia attenzione, quelle suole di scarpe incastrate nella terra che diventano passi al contrario, mischiati al fango, corrosi tra le pietre. Nessuna pioggia può cancellare passi di plastica, gomma e legno, nessun freddo può nascondere lo scempio degli odori della sera quando il sole ha battuto sulle latrine aperte al pubblico.
Il mio barrio si chiama “Independencia” e quando arrivi te ne accorgi perché c’è un arco bianco dove c’è scritto il nome a lettere nere e grandi, la mia vicina di casa è alta poco meno di me e ha lunghi capelli ricci e neri, mi ricorda le mie zie dell’Abruzzo quando le andavo a trovare da piccola, viviamo in casa sua e lei fa di tutto perché sembri anche casa nostra, i suoi figli musici e danzatori ieri sera ci hanno fatto provare cosa significa sentirsi bene anche quando l’inverno punge la pelle e il cuore vorrebbe calore.
Sento che non era tempo di freddo per la mia carne, sento che il vento in faccia vorrei che fosse scirocco, ma so di essere nel luogo esatto in cui dovrei essere.
Il mio barrio si chiama “Independencia” ed è strano sentirlo così mio, strano sorprendersi ogni volta di quello che il viaggio fa per noi, di quello che noi vediamo come se i nostri occhi si aprissero alla strada per la prima volta.
Lo sbalzo tra centro e periferia della città in alcuni momenti provoca stordimento, un’ora prima sei di fronte ai grattacieli di Puerto Madero e, dopo un viaggio con un Trafic senza assicurazione, eccoti di nuovo nella Buenos Aires che non ti aspetti. Nel mio barrio coloriamo le mani con le mani e le trasformiamo, giochiamo con le parole e le disegniamo, nel mio barrio cerchiamo di fare come possiamo e non ci importa se dalla nostra mano esce un coniglio che sembra un cavallo, al massimo ci prendiamo in giro e cambiamo foglio.
Camminavo stamattina e poi ad un certo punto ho trovato la farmacia, ho comprato quello che mi serviva e sono tornata a casa.
Pensavo mentre tornavo indietro, pensavo quasi a voce alta, tanto non c’era nessuno in giro e io avevo freddo e volevo attraversare il piccolo torrente.
Credo che tornerò, mi dicevo, non importa che stagione sarà, non importa se farà freddo e la gola ne risentirà, ci sono luoghi dove bisogna tornare.
Gabriella Ballarini
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