Scritto da Gabriella Ballarini
… Io li guardo, stupita e silente. Li guardo al mattino, alla sera, sull’autobus, nelle classi, li guardo quando sono pensierosi e quando dettano le loro leggi, le loro regole mi scuotono, mi bloccano, mi divertono.
Mi chiedo a cosa pensino, mi perdo nella decodificazione e mi chiedo se abbia un’utilità, mi ritrovo in un discorso sconnesso e re-invento la logica dell’evento e re-imposto la risposta, come in un gioco nuovo, come in una canzone da inventare.
Non mi annoio mai, mi spazientisco a volte, mi agito se mi sfugge di mano una situazione divertente che all’improvviso diventa allucinante, ma imparo, mantengo il divertimento, cambio i toni che lo seguono e che lo precedono. Ridere è il mio modo di sopravvivere al mondo, ridere è il mio modo di esorcizzare un passaggio alla deriva, il mio modo, ciò che mi fa essere unica, ciò che caratterizza un evento educativo che mi veda partecipe della scena.
La pedagogia dell’essere come siamo, senza tradire il luogo in cui siamo.
… Sa professore, oggi ero sul bus che ci riporta a casa ogni giorno, ero lì pensavo a lei, pensavo al mio desiderio immenso di catturare quel momento scrivendole. Volevo fermare tutto e raccontarle, fare prigionieri gli odori, i rumori, le voci dei bambini, metterli via, trovare le parole giuste per far capire quello che stava capitando. I più piccoli in braccio ai più grandi, le bambine che mi scrivevano sulla mano, che mi facevano la treccia, l’odore dei primi che avevano fatto la pipì addosso, l’odore del riso nelle gavette, il suono dei canti mandati a memoria, ricordo di incontri italiani, ricordi di mamma che cantava prima che arrivasse il tempo di trasferirsi alla “casa dei bambini”.
La casa dei bambini è una casa, c’è tutto, camere da letto, cucina, sala da pranzo, bagni, pentole e padelle, una vera casa insomma. Ma cos’è una vera casa? Cosa fa di una casa un luogo al quale tornare e nel quale crescere?
È possibile che la casa un giorno finisca? Così come finisce il nido degli uccellini, o si evolva come quella del gattino di casa che nasce in una scatoletta piccola, piccola e poi colonizza il letto, cambia casa, cambia luogo al quale tornare.
La casa, qui, è il tavolo ovale attorno al quale fare i compiti la sera, intorno al quale mangiare il riso, un pezzetto di papaia, un bicchiere di latte appena munto. La casa qui è la chiesetta in cui pregare insieme, come una famiglia, come quando ci si ritrova per ritrovarsi, per rimettere apposto i pezzi, per spiegare cos’è giusto, cos’è sbagliato, cos’è da rifare.
La pedagogia degli errori commessi per errore.
La casa in cui l’India è così presente, pregnante, impregnante di peperoncino tritato e aglio fritto in olio rifritto. La casa qui è, per me, il simbolo vero della mia precarietà in terra straniera.
Sono stata trasferita in molti posti dal mio arrivo, tutti i trasferimenti sono avvenuti senza che io decidessi, dove, come o con chi.
Si chiama India, si chiamano gerarchie, c’è chi decide e chi obbedisce, io faccio di più la seconda, provo a dire la mia,ma la mia voce è troppo debole, la dinamica già avviata da un po’, difficile uscirne senza spezzare qualcosa.
Mi chiedo a cosa pensino, mi perdo nella decodificazione e mi chiedo se abbia un’utilità, mi ritrovo in un discorso sconnesso e re-invento la logica dell’evento e re-imposto la risposta, come in un gioco nuovo, come in una canzone da inventare.
Non mi annoio mai, mi spazientisco a volte, mi agito se mi sfugge di mano una situazione divertente che all’improvviso diventa allucinante, ma imparo, mantengo il divertimento, cambio i toni che lo seguono e che lo precedono. Ridere è il mio modo di sopravvivere al mondo, ridere è il mio modo di esorcizzare un passaggio alla deriva, il mio modo, ciò che mi fa essere unica, ciò che caratterizza un evento educativo che mi veda partecipe della scena.
La pedagogia dell’essere come siamo, senza tradire il luogo in cui siamo.
… Sa professore, oggi ero sul bus che ci riporta a casa ogni giorno, ero lì pensavo a lei, pensavo al mio desiderio immenso di catturare quel momento scrivendole. Volevo fermare tutto e raccontarle, fare prigionieri gli odori, i rumori, le voci dei bambini, metterli via, trovare le parole giuste per far capire quello che stava capitando. I più piccoli in braccio ai più grandi, le bambine che mi scrivevano sulla mano, che mi facevano la treccia, l’odore dei primi che avevano fatto la pipì addosso, l’odore del riso nelle gavette, il suono dei canti mandati a memoria, ricordo di incontri italiani, ricordi di mamma che cantava prima che arrivasse il tempo di trasferirsi alla “casa dei bambini”.
La casa dei bambini è una casa, c’è tutto, camere da letto, cucina, sala da pranzo, bagni, pentole e padelle, una vera casa insomma. Ma cos’è una vera casa? Cosa fa di una casa un luogo al quale tornare e nel quale crescere?
È possibile che la casa un giorno finisca? Così come finisce il nido degli uccellini, o si evolva come quella del gattino di casa che nasce in una scatoletta piccola, piccola e poi colonizza il letto, cambia casa, cambia luogo al quale tornare.
La casa, qui, è il tavolo ovale attorno al quale fare i compiti la sera, intorno al quale mangiare il riso, un pezzetto di papaia, un bicchiere di latte appena munto. La casa qui è la chiesetta in cui pregare insieme, come una famiglia, come quando ci si ritrova per ritrovarsi, per rimettere apposto i pezzi, per spiegare cos’è giusto, cos’è sbagliato, cos’è da rifare.
La pedagogia degli errori commessi per errore.
La casa in cui l’India è così presente, pregnante, impregnante di peperoncino tritato e aglio fritto in olio rifritto. La casa qui è, per me, il simbolo vero della mia precarietà in terra straniera.
Sono stata trasferita in molti posti dal mio arrivo, tutti i trasferimenti sono avvenuti senza che io decidessi, dove, come o con chi.
Si chiama India, si chiamano gerarchie, c’è chi decide e chi obbedisce, io faccio di più la seconda, provo a dire la mia,ma la mia voce è troppo debole, la dinamica già avviata da un po’, difficile uscirne senza spezzare qualcosa.
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